di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Le ragioni del fascino che certi libri, su certi argomenti, esercitano su di noi sono a volte ovvie e a volte misteriose, anche a noi stessi che li abbiamo letti e amati. Nella mia adolescenza, ho divorato romanzi che parlassero di contadini (il mondo in cui sono cresciuto) e di pionieri (da quelli dei paesi nordici a quelli sudafricani, da La famiglia di Borg di Gunnar Gunnarsson a La storia di una fattoria africana di Olive Schreiner; da quelli di Willa Cather – e sono felice di essere stato io a far ristampare dalla Tartaruga il bellissimo La mia Antonia e dalle Edizioni dell’asino i racconti delle Pioniere che ella scrisse dal punto di vista delle donne, artefici prime dei radicamenti e delle lunghe durate – ai capolavori “neri” di Nathaniel Hawthorne sul Massachusetts (La lettera scarlatta, tutt’altro che idealizzante la cultura e gli usi dei “padri pellegrini”) su fino a Il cucciolo di Marjorie K. Rawlings, che riuscì a diventare rapidissimamente uno dei libri più amati da adulti e ragazzi negli Stati Uniti e in cento altri paesi.
Dato alle stampe nel 1938 fu subito coronato dal Pulitzer ed ebbe in Italia una prima edizione Bompiani l’anno dopo, la prima di tantissime altre. Raccontava i pionieri della Florida, un paese dalla natura estremamente diversa da quella, per esempio, del cinema western di John Ford (e di Furore di John Ernst Steinbeck, un capolavoro letterario da cui quel regista, di origine irlandese ed estremamente sensibile alle storie dei migranti contadini fuggiti per fame del suo paese e di tutti i migranti, trasse un magnifico film che aveva al centro una formidabile figura di madre interpretata da Jane Darwell, degnamente coronata da un Oscar). Meno noto ma per me non meno bello fu di Ford La più grande avventura, sugli anni e sulle guerre per l’Indipendenza dagli inglesi.
L’ambiente de Il cucciolo non era il West ma il Sud-est degli Usa, non erano le pianure e le montagne ma le paludi in mezzo alle quali la Rawlings era cresciuta. Autrice di pochi libri non tutti di uguale livello – il più celebre, scritto prima del Cucciolo e di molto inferiore, fu Le mele d’oro, sui pionieri che introdussero in America la coltivazione degli agrumi: le “mele d’oro” non erano altro che le arance. Sulla vita di questa scrittrice fu fatto un film molto onesto da un regista rigorosamente democratico, Martin Ritt, nel 1983: La foresta silenziosa, nell’originale Cross Creek, che era il luogo in cui la Rawlings aveva scelto di vivere e di scrivere.
Due anni prima de Il cucciolo, Margaret Mitchell aveva scritto ad Atlanta, nel Sud degli States, Via col vento, super-best-seller certo importante per capire un’epoca e una cultura, ma molto meno affascinante, almeno per me, del Cucciolo, che narrava la piccola storia di una famiglia che la grande Storia sfiora da lontano mentre è la lotta quotidiana per la sopravvivenza a dominarvi. Vi si trattava di strappare la terra alla palude e alla foresta, di coltivare per la propria sopravvivenza e per avere qualcosa da scambiare al mercato; vi si raccontava un’epica guerra contro un orso distruttore (speculare a quella magistrale del racconto di William Faulkner L’orso, in Scendi, Mosè, che uscì in volume quattro anni dopo Il cucciolo).È insomma la lotta quotidiana con la Natura, mentre i pellirosse sono un pericolo passato o secondario.
Quando ha inizio il romanzo il protagonista Jody ha 11 anni e vive in una piccola fattoria col padre e con una madre piuttosto dura con tutti, perché, scopriamo, ha perduto alla loro nascita ben sette figli prima che Jody nascesse. C’è in lontananza un paese, e c’è una dura famiglia di vicini, più cacciatori che allevatori, che Jody frequenta perché ne fa parte un piccolo storpio molto malato che, come Jody, adora gli animali. Jody si affeziona a un cerbiatto la cui madre suo padre ha dovuto uccidere per usarne il fegato contro gli effetti del morso velenoso di un serpente. Ma il cerbiatto (chiamato Flag, per via di una coda che sembra una bandierina al vento), non rispetta crescendo i confini dei campi e divora i germogli delle nuove piante, e così la madre di Jody costringe lui e suo padre a ucciderlo. E Jody, affranto e indignato, fugge di casa, per ritornarvi cresciuto, dopo avventure di battello e di fiume, e ammaestrato dalla vita, cosciente delle ragioni della madre. Di che cosa è fatta la vita dei pionieri, e né più né meno che la Vita. Che permette agli uomini di crescere e moltiplicarsi, bensì a danno di altre specie, e di altre comunità…
Tutto questo è narrato dalla Rawlings con una scrittura limpida e accurata, piena di azioni e descrizioni e insomma di contenuti sempre significativi, ma senza i ricatti di un insistente moralismo. E davvero ci si continua a emozionare, e si è portati a ragionare, leggendo Il cucciolo, come ci accadde da ragazzi anche se non è un romanzo scritto per ragazzi, anche per una rinnovata attenzione alla natura, e alla lotta per la sopravvivenza, alla fatica di “trovare radici” e avere radici senza dover uccidere. Come sarebbe dovere di tutti cercar di fare.
Il cucciolo non è Huckleberry Finn di Mark Twain, ma non ne è poi così lontano… Dal romanzo fu tratto un film, a colori, che non è alla sua altezza ma che è tuttavia gradevole e ben fatto, all’uso hollywoodiano di un tempo, e amaramente “istruttivo” anche per i lettori ragazzini di oggi.

Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini