di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Grande Sertão di João Guimarães Rosa è uno dei grandi romanzi del Novecento, paragonato spesso per il valore e l’originalità e l’ambizione all’Ulisse di James Joyce e a Santuario di William Faulkner. Ho detto spesso con una battuta superficiale che i grandi maestri della letteratura del Novecento sono stati Kafka, scrittore dei Nord, e Faulkner, scrittore dei Sud, due strade opposte ma ugualmente esigenti e ugualmente geniali.
Ma tra gli scrittori dei Sud come non ricordare il medico e diplomatico brasiliano Guimarães Rosa, che con la raccolta di racconti Corpo di ballo e con il romanzo Grande Sertão (500 pagine che sbalordiscono e affascinano, reperibili in italiano nella traduzione di Edoardo Bizzarri, Feltrinelli 1970; l’edizione originale è del 1963) più volte rivista e perfezionata, ha trascinato i lettori del suo e di ogni Paese in una mirabolante avventura, pur se dentro un mondo lontanissimo dal nostro?
Dentro il vortice di una scrittura incantata, di continua varietà e vivacità, e tanto sperimentale e azzardata quanto concreta e realistica, quanto magica. La trama e la scrittura vi sono ugualmente insolite, e se un riferimento la critica internazionale ha potuto fare, accorgendosi immediatamente della grandezza di quest’opera, è stato con l’Orlando furioso, con le storie dei paladini di Francia, con la bizzarra fantasia dell’opera dei pupi rivisitata però da un poeta geniale.
E applicata a un mondo che ha avuto e ha ancora una sua realtà, ben conosciuta da Guimaraes Rosa e già affrontata da Euclydes da Cunha, militare e a suo modo aedo e antropologo del Nordeste del Brasile, in Os Sertões, cioè gli abitanti del Sertão, l’impervia zona a tratti desertica del Brasile che comprende anche lo stato di Minas Gerais che a Guimaraes ha dato i natali e nel Sertão ha ambientato le sue creazioni.
Molti di noi hanno conosciuto il Sertão attraverso il cinema, e in particolare grazie ai film di Glauber Rocha (Il dio nero e il diavolo biondo e Antonio das mortes) che ci parlarono delle rivolte religiose e di quelle banditesche già narrate da Guimaraes. In racconti meravigliosi (La terza sponda del fiume, L’ora e il momento di Augusto Matraga, Il duello: se li trovate su qualche bancarella non fateveli sfuggire! e se no cercate la raccolta Corpo di ballo).
Ho avuto la fortuna di conoscere (e qualche volta litigarci!) il grande Glauber, vissuto diversi anni a Roma, e di aver tradotto per Einaudi un saggio di Josué de Castro, quello della Geografia della fame degli anni ’50 – basandomi, confesso, sulla traduzione francese più che sull’originale – proprio sul Nordeste del Brasile, e anche per questo ho subito considerato Grande Sertão come un capolavoro assoluto.
Ma di cosa tratta, infine, questo romanzo? È una storia molto movientata di cangaceiros, i banditi del Nordeste, e racconta le avventure e le imprese di due amici, Riobaldo e Diadorim, legati per la vita. E quando Diadorim sarà morto, Riobaldo scopre le ragioni del loro ambiguo legame: Diadorim era una donna, diventata bandito per ragioni di vendetta familiare. Come una Clorinda ariostesca, sul fondo di avventure e intrecci dove storia e leggenda, natura e società si legano indissolubilmente, e indissolubilmente si scontrano.
Grande Sertão è fuor di dubbio uno dei più grandi romanzi della letteratura del ‘900, ed è davvero imperdonabile non averlo letto.
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Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini