di Danilo Di Matteo. Psichiatra e psicoterapeuta. Autore di “L’esilio della parola. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher” (Mimesis, 2020)
Sul finire degli anni Ottanta molti pensavano che, ormai, il confronto politico e sociale fosse destinato a svolgersi fra coloro che ponevano l’accento sulla globalizzazione dei mercati e coloro che insistevano sull’esigenza di globalizzare i diritti. Così non è stato. O meglio: accanto a tali istanze, ne sono violentemente emerse altre, di tipo neopopulista o sovranista. E proprio adesso che abbiamo la sensazione di non venirne più travolti, acquista ulteriore significato la riflessione proposta da Giacomo Marramao nel libro Sulla sindrome populista. La delegittimazione come strategia politica (Castelvecchi, 2020).
Proviamo a riflettere sul titolo: il filosofo, ricorrendo a una metafora medica, parla di sindrome, cioè di “segni” e “sintomi” a loro modo patologici. E il testo è attraversato proprio dalla tensione fra due aspetti di ciò che oggi comunemente intendiamo per populismo. Da un lato emergono, nel mondo, “ibridi mostruosi” (dalla Cina agli Usa di Trump, ancora per certi versi all’ordine del giorno) «che potrebbero segnare la fine di quel complesso di saperi e di pratiche cui abbiamo dato da duemilacinquecento anni il nome di politica». Dall’altro le coppie concettuali “legittimo-illegittimo” e “legittimazione-delegittimazione” «attraversano come un fiume carsico l’intera vicenda della politica occidentale». Come dire: si tratta, insieme, di “normalità” e di “patologia”. Non a caso l’autore si chiede: «in base a quale criterio si definiscono la dimensione e il soggetto della legittimità?».
Per Carl Schmitt, ad esempio, solo chi è in grado di tracciare la linea di demarcazione tra amico e nemico (inteso come hostis, nemico pubblico) «è il soggetto che detiene la legittimità di proclamare lo stato d’eccezione». In ogni caso, la coppia legittimo-illegittimo ha a che vedere con la relazione verticale tra governanti e governati. Sul terreno orizzontale della contesa politica si delinea invece la coppia legittimazione-delegittimazione. In particolare, a cavallo fra la metà del XVIII e la metà del XIX, emergono nuove coppie opposizionali (ad esempio rivoluzione-reazione, progresso-conservazione, destra-sinistra, nazionalismo-cosmopolitismo) «che divengono terreno di coltura di visioni del mondo incompatibili, la cui tendenza alla delegittimazione reciproca» è caratterizzata da un conflitto di valori. Distinguendo, però, tra un conflitto di valori «peggiore e più funesto del bellum omnium contra omnes hobbesiano e le strategie di delegittimazione reciproca fra competitori politici che perseguono obiettivi di occupazione del potere».
Qui mi sento di fare un esempio noto a tutti: il Pci negli anni della guerra fredda (in senso lato). Esso cercava “legittimità” nella Costituzione, che aveva contribuito a scrivere, e, nel contempo, veniva “delegittimato”, nella contesa politica, in quanto profondamente legato all’Urss. Ma, nota Marramao, la divisività che contrassegna la storia italiana risale in realtà «alle origini dello stesso processo di unificazione politica della penisola». Non a caso, già nel 1868 Angelo Camillo De Meis, nel suo saggio Il Sovrano, parlava di una società “divisa in due popoli” “profondamente separati” e collocati “in due campi opposti e nemici”. La frattura fra “laici” e “cattolici”, come è noto, percorre la nostra intera vicenda nazionale.
Le pratiche di delegittimazione, in ogni caso, si situano lungo la linea di confine tra diritto, politica e morale. Uno spazio simbolico ibrido, che oggi si avvale ad esempio dei social e non teme di usare la storia come strumento di autolegittimazione. Basti pensare al proporsi di Matteo Salvini, di volta in volta, addirittura come erede di Enrico Berlinguer o della rivoluzione liberale di gobettiana memoria.
Il libro si avvale, nella discussione, di una sorta di cannocchiale rovesciato, volto a vedere con la dovuta distanza e la corretta prospettiva storica ciò che è vicino e attuale, senza lasciarsene sopraffare. Sì, l’idea che giunge al lettore è proprio quella di un testo e di un pensatore per nulla succubi dei populismi. Contrariamente a ciò che spesso accade, infatti, il saggio non è espressione di una reazione difensiva verso di essi. Al contrario, spazia senza inibizioni nei meandri del tempo e delle parole, cogliendone gli aspetti più vari e offrendo infinite suggestioni. Non è, in definitiva, dettato dalla paura.
Marramao fa riferimento alla doppia natura del “popolo”, come concepito dai movimenti populisti: una miscela di polemica anti-establishment e di retorica iperdemocratica. L’attuale neopopulismo mediatico, tuttavia, più che far davvero leva sulla partecipazione, offre in realtà una decostruzione e una destrutturazione «dell’idea di popolo in una massa di individui isolati e ridotti, a dispetto dell’illusione di acquisire protagonismo attraverso la rete, a mera audience»: l’altro volto, si direbbe, «della scomposizione neoliberista del legame comunitario». Un abisso lo separa dal populismo politico e dall’idea di patria dell’America Latina.
Eloquente al riguardo è la proposta filosofica di Ernesto Laclau, a cui dà un contributo fondamentale il lavoro politologico di Chantal Mouffe. Si tratta, in definitiva, di una proposta di democrazia radicale, caratterizzata da «un intreccio dinamico di democrazia diretta» e rappresentativa. «In principio non c’è il Soggetto ma la Relazione», intesa come «una costellazione di azioni e di pratiche relazionali da cui i soggetti sono sempre costituiti». In essa si danno «dinamiche conflittuali policentriche fra irriducibili differenze», non «soggetti individuali precostituiti» né “società” intesa «come totalità presupposta o gemmazione spontanea». Come dire che la tradizionale diatriba sulla priorità del singolo o della società è priva di consistenza.
Qual è la proposta dell’autore, dunque? Egli esorta a «prendere definitivamente congedo dal lessico della legittimazione/delegittimazione», riscoprendo invece il tema dell’autorità. Nell’interregno nel quale ci situiamo, sospesi «tra il non-più del vecchio ordine degli Stati-nazione sovrani e il non-ancora di un ordinamento post-nazionale», con un potere senza autorità e un’autorità senza potere, andrebbe riscoperta la portata etimologica della parola auctoritas: “aumento”, crescita «che procede autonomamente dalla dinamica delle relazioni cooperativo-conflittuali del corpo politico».
Provando a delineare «una repubblica generativa, libera e coesa, in grado di costituire un orizzonte di senso per l’agire individuale e collettivo». E, insieme, provando a saldare due dimensioni della memoria: da un lato la memoria come trasmissione di «valori fondativi dell’identità» e costruzione, per l’appunto, «di un orizzonte di senso della collettività», dall’altro la memoria come «repertorio delle occasioni perdute» e delle «possibilità inattuate, “sommerse” e rimaste allo stato di latenza». Poche volte, insomma, ecco la sensazione che si prova confrontandosi con le rapide pennellate del libro, sviluppare il tema dei cosiddetti populismi significa scavare così a fondo nella politica, nella filosofia e nella storia.

Danilo Di Matteo
Psichiatra e psicoterapeuta. Autore di “L’esilio della parola. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher” (Mimesis, 2020)