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Fuori l’economia di guerra dal dibattito

by Raul Caruso

di Raul Caruso. Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.

Per quanto difficile sia la situazione che il mondo sta attraversando con il Covid-19, essa non è assolutamente definibile come un’economia di guerra. Per guardare al futuro è bene scrollarsi di dosso questa errata definizione.

Le parole sono importanti, in particolare quelle che usiamo nelle definizioni che delimitano il contenuto di un’elaborazione concettuale. Le definizioni, tuttavia, sono attualmente componenti sottovalutate nei ragionamenti in particolare quelli di natura politica. Eppure una corretta definizione dei problemi agevola le soluzioni di cui abbiamo bisogno, in particolare quelle soluzioni destinate a dare soluzioni non solo efficaci ma anche stabili nel tempo.

Se le parole sono importanti allora in situazioni difficili come quella che stiamo vivendo bisogna utilizzarle nella loro nettezza anche se esse non rispondono al nostro sentire emotivo. Uno degli errori oramai malamente diffuso in questi ultimi mesi è quello di definire la situazione di crisi economica che stiamo vivendo come un’economia di guerra.

La contrazione economica derivante dalla pandemia è sicuramente complessa e difficile da affrontare ma non è paragonabile a una guerra. Una guerra determina la distruzione di quello che ha più valore nella nostra società, vale a dire la vita di donne e uomini, e in particolare le vite più giovani. Se dovessimo analizzare con freddezza con gli occhi dell’economista, la perdita di giovani vite in una guerra corrisponde in primo luogo alla perdita di capitale umano e di forza lavoro.

Questa pandemia per quanto tragica dal punto di vista umano, sta registrando i livelli più alti di mortalità nelle fasce anziane della popolazione, in cui in genere osserviamo livelli di educazione e competenze inferiori rispetto alle persone più giovani, e che comunque non sono più nella popolazione attiva. In pratica, la pandemia per quanto difficile a differenza di una guerra non sta cancellando le conoscenze, le competenze e la creatività degli esseri umani e in particolare quelle della popolazione in età lavorativa.

Se poi consideriamo il capitale fisico, una guerra determina distruzioni sconosciute in questa fase di pandemia. Basta cercare su internet le foto di città, edifici e opifici sventrati e distrutti da bombardamenti e battaglie per capire quanto siamo lontani da questa situazione. Le nostre strutture produttive sono attualmente ancora esistenti e in piedi pur essendo a volte in una stasi o in un rallentamento delle dinamiche connettive e produttive.

Una guerra inoltre determina una scarsità di beni che in alcuni casi alimenta processi inflattivi a doppia cifra oltre che speculazioni e mercato nero. Tutto questo non si registra in questo momento. La gran parte dei beni e in particolare i beni di prima necessità sono presenti sugli scaffali dei negozi. In breve, per quanto difficile, la situazione non è assolutamente definibile come un’economia di guerra.

Repetita juvant: Siamo in una pandemia e non in una guerra. Ma allora come mai esponenti della classe dirigente continuano a ripetere acriticamente questo errore? E quali sono le conseguenze? In primo luogo non possiamo ignorare il fatto che la mentalità e la narrativa abituali dei nostri policy-maker risentono ancora in maniera profonda della retorica totalitarista del ventesimo secolo di cui però sovente sfugge il ricordo reale.

Esiste poi la possibilità – da non scartare mai a priori – che la costituency al potere abbia un vantaggio in questi continui richiami alla guerra perché essa consente una maggiore discrezionalità decisionale in termini di gestione della cosa pubblica. In ultimo quello che davvero deve preoccuparci è il fatto che la probabilità che da una definizione sbagliata derivino scelte politiche sbagliate è molto elevata. In particolare, il perpetuarsi dell’errore potrebbe poi far comparire realmente i prodromi di una guerra.

Il sostegno alle attività produttive in difficoltà, per quanto necessario, non può esaurire il panorama delle politiche economiche anche perché tale sostegno si sta concretando aumentando il carico fiscale sulle generazioni future. In questo modo le disuguaglianze esistenti già aggravate dalla crisi in corso rischiano di perpetuarsi nel futuro. Recuperare la capacità produttiva del capitale umano è la vera sfida, e questo può essere possibile solo abbandonando la retorica bellica e militarista di cui purtroppo un Paese come l’Italia è ancora ostaggio. Dimenticare un’economia di guerra significa mettere al centro le persone.

Per fare questo è necessario razionalmente bilanciare il presente e il futuro nelle nostre scelte e attribuire più peso alla salute, alla creatività e alle competenze delle persone rispetto all’enfasi smodata su nuovi prodotti e tecnologie. In pratica, sostituire la visione di un’economia di guerra con le prospettive di un’economia della pace.

Ph. © UN Women/Fahad Abdullah Kaizer

Raul Caruso

Raul Caruso

Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.

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