di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Grandi speranze di Charles Dickens, che il grande inglese finì di scrivere nel 1861, è certamente il romanzo che ho letto più spesso, cinque, sei volte con questa. Col tempo, i personaggi di un romanzo molto amato, che ci ha aiutato più di altri libri a darci un’idea del mondo e a capir meglio noi stessi, ci diventano cari come persone conosciute davvero, come gente di casa, come amici le cui vicende ci ammaestrano sui casi della vita e, soprattutto, su noi stessi, sulle nostre illusioni (“speranze” o, come alcuni traduttori del romanzo dickensiano hanno preferito, “aspettative”) e, va da sé, sulle nostre disillusioni.
Tra i grandi romanzi dell’Ottocento, solo alcuni di Stendhal, Hugo, Tolstoj e Dostoevskij, Hawthorne e Melville, Manzoni e alcuni di autori meno grandi ma a volte più intriganti e più radicali, hanno avuto anche sui lettori del Novecento, e si spera abbiano ancora negli anni Duemila, altrettanta influenza, altrettanta capacità di coinvolgere e aiutarci a comprendere: il mondo e noi stessi.
Grandi speranze è raccontato in prima persona da Pip, un giovane uomo che, orfano cresciuto in casa di una sorella acida e del suo angelico marito, incontra da bambino nelle paludi un forzato fuggiasco e lo nutre, ed è usato da una vecchia signora che odia gli uomini perché uno di loro l’ha piantata nel giorno delle nozze e si serve per vendicarsi dei maschi e dunque anche di Pip di una ragazzina bellissima, Estella, che fa innamorare Pip per farlo soffrire, ma che rimarrà presto irretita in un giro d’affetti molto più complesso. Un avvocato venuto da Londra annuncia a Pip e ai suoi che qualcuno pensa al suo avvenire, e lo porta in città trasformandolo in un frivolo signorino, finché non ricompare il forzato, nuovamente in fuga, e che è in realtà l’artefice della sua fortuna nonché… Ma è bene che il lettore che, sciagurato!, non abbia ancora letto Grandi speranze, finisca per scoprirlo da sé…
Quello che, sotto un’altra penna, avrebbe potuto essere uno dei tanti melodrammatici romanzi ricchi di agnizioni e di teatrali colpi di scena e di coloriti personaggi secondari, diventa sotto la penna di un genio – di uno scrittore che conosceva come pochi la società del suo tempo e sapeva come pochi fissare in figure e in azioni la sostanza e l’essenza di una società, di una città come Londra –, diventa un cammino di conoscenza – di sé e del mondo – da parte di un qualsiasi giovane del tempo, solo più di tanti altri segnato dalla sorte.
Alla fine di un percorso tormentato, Pip ed Estella si ritroveranno, ma segnati dalla conoscenza delle cose del mondo. Come ha detto un grande poeta, e come non si deve mai dimenticare, “conoscere è soffrire”. Nessuno sfugge alle disillusioni dell’età adulta e della cosiddetta maturità, ma, come disse il maggiore degli scrittori inglesi, “la maturità è tutto”; ed è nel difficile rapporto tra guardare al mondo così com’è e cercare e scegliere nei suoi intrichi una propria strada e una propria compagnia, e insieme cercare di renderlo un tantino migliore, è in questo modo che si diventa adulti, si diventa uomini e donne responsabili, come Pip ed Estella diventeranno, persone che possono sostenersi a vicenda ma anche cambiare qualcosa in meglio, in ciò che si ha intorno.
Non parla di magnifiche sorti, Grandi speranze, ma di accettazioni coerenti e che, si spera, nelle difficoltà e varietà delle esperienze, possan annunciare delle non-accettazioni solide e radicali. Come pensava proprio nella Londra di Dickens, un esule tedesco con i piedi per terra e nella scienza e con la testa nel domani, un tale Carlo Marx che era peraltro anche lui un fedele lettore del grande Dickens.
Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini