Libia. Alla riscoperta della memoria e identità ebraica - Confronti
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Libia. Alla riscoperta della memoria e identità ebraica

by David Meghnagi

di David Meghnagi. Psicologo e psicanalista, ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Università Roma Tre.

(Intervista a cura di Michele Lipori)

In Libia ebraica. Memoria e identità. Testi e immagini (Salomone Belforte, 2020) i lettori e le lettrici sono accompagnate nella scoperta della storia della Comunità ebraica di Libia, dalle origini fino al 1967, anno in cui la popolazione ebraica fu costretta a lasciare il Paese a causa della difficile situazione politica che nel giro di poco portò al potere Gheddafi. Pubblicato la prima volta nel 2018 in lingua inglese dalla Syracuse University Press, la versione italiana – sempre a cura di Jacques e Judith Roumani e di David Meghnagi – risulta arricchita da alcuni saggi (come quello di Liliana Picciotto sulla deportazione degli ebrei del Mediterraneo dall’Italia a Bergen Belsen) che affrontano con particolare attenzione il rapporto tra storia e memoria degli ebrei di Libia. Ne abbiamo parlato con David Meghnagi, cocuratore del volume nonché psicologo e psicanalista, ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Università Roma Tre.

La metodologia alla base del libro prevede un affiancamento tra la memoria familiare e individuale e la storia, che presuppone la ricerca dei dati scientifici. Come si possono far convivere storia e memoria?

Il libro è, per certi aspetti, abbastanza atipico. Pur essendo rigoroso sul piano scientifico, come si confà del resto a una pubblicazione accademica, accoglie al suo interno molte testimonianze dirette. Nonostante questa ibridazione, il controllo dei testi è stato molto rigoroso e, laddove sono state individuate delle défaillance nella testimonianza o nel racconto, siamo intervenuti con un apparato di note esplicative di carattere storico. La memoria è un processo dinamico in cui i dati sono di continuo rimodellati sulla base di ciò che si viene a sapere dopo. Un’intervista fatta sul momento, riflette l’esperienza di quel momento. Chi parla anni dopo, lo fa alla luce anche di quello che ha appreso in seguito. La rielaborazione del passato non avviene nel vuoto. È frutto di un’interazione costante con il mondo esterno e quello interno che ha come sfondo il tentativo di dare un senso al passato e al futuro.

Ovviamente dobbiamo distinguere tra il ricordo individuale di un evento e la memoria collettiva. Il primo appartiene alla storia personale. Nella memoria collettiva sono in gioco processi più ampi di carattere sociale, culturale e politico. Come i due aspetti interagiscano fra loro è una delle grandi sfide per la ricerca. La dialettica fra memoria, testimonianza e ricerca è complessa. Si tratta di ambiti diversi che però dialogano fra loro. La testimonianza obbliga lo storico ad approfondire i fatti. A sua volta la ricerca contribuisce a rimodellare il processo attraverso cui una società ricorda. Quando i fatti sono del tutto svincolati dal ricordo e dalla memoria che una società ne conserva, cessano di essere “significativi” all’interno della storia di una determinata civiltà.

In che modo quella delle comunità ebraiche in Libia rappresenta una “storia esemplare”?

Il libro è articolato in cinque sezioni che affrontano aspetti diversi della vita degli ebrei di Libia. Nella prima si affronta la storia più antica, poco conosciuta e che arriva all’epoca della dominazione romana e di cui a parlare sono in particolare i resti archeologici e le testimonianze scritte di quel passato. Le altre quattro sono rispettivamente dedicate alle tradizioni culturali religiose e linguistiche, alla condizione delle donne, alle testimonianze, alle persecuzioni fasciste e ai pogrom arabi. La storia degli ebrei di Libia ha un che di esemplare. Rispetto alle comunità del Maghreb (Tunisia, Marocco e Algeria), e all’Egitto con cui confina a Oriente, è stata sempre numericamente più piccola. La percentuale rispetto al resto della popolazione è, in questi casi, più o meno simile (circa il 3%) che è molto alta se paragonata alla società italiana, in cui gli ebrei costituivano appena l’1 per mille della popolazione. Fino alla scoperta del petrolio, la Libia era un grande “scatolone di sabbia”, la cui zona costiera collegava il Maghreb all’Egitto. Presenti nell’artigianato e nel commercio, gli ebrei vivevano in larga parte nella città di Tripoli, dove negli altri Trenta costituivano un quarto della popolazione. Ma c’erano anche presenze nell’interno, dove si erano rifugiati all’epoca della dominazione spagnola (molti ebrei furono deportati e venduti come schiavi), che i piccoli venditori ambulanti, camminando a piedi accompagnati da un somaro, impiegavano giorni per raggiungere.

Con l’occupazione italiana, gli ebrei di Libia escono dalla condizione di inferiorità in cui erano stati per secoli relegati dalla dominazione araba e ottomana. Soprattutto agli inizi, gli ebrei furono visti come un elemento potenzialmente filoitaliano. Si tratta però di un rapporto ambivalente che entra sin dall’inizio in conflitto con la necessità di non innescare una reazione araba collegata a una perdita di status rispetto a una posizione in cui rispetto agli ebrei erano dominatori. Il sogno dell’emancipazione dura in realtà poco. Con le Leggi razziste del 1938 gli ebrei sono espulsi dalle scuole italiane. L’estensione di tali Leggi in Libia è agli inizi parzialmente frenata. Ma con lo scoppio della guerra, la situazione precipita. Chi ha un documento britannico o francese viene considerato – da un giorno all’altro – come un nemico. E così iniziano le reclusioni e le deportazioni verso l’Italia e la Tunisia di Vichy. Dall’Italia gli ebrei libici con passaporto inglese sono trasferiti nel ’44 a Bergen- Belsen e altre località. Gli ebrei con documenti francesi finiranno nei duri campi di lavoro istituiti dal regime di Vichy. Per gli ebrei della Cirenaica, data la collocazione strategica, con ritiri e avanzamenti delle truppe italiane, è un incubo.

In massa la comunità è deportata a Giado, in una località a 135 km a sud di Tripoli. Sarebbero morti tutti, se – nel frattempo – il Paese non fosse stato liberato dagli Alleati. Al loro arrivo dopo la vittoria di El Alamein, circa 600 ebrei – un quarto della comunità – erano morti per le pessime condizioni vita nel campo e per il tifo. L’arrivo degli Alleati a Tripoli fu salutato con gioia. Ma la “normalità” ritrovata ha breve durata. Nel ‘45 vi è un violento pogrom ideato e condotto dai nazionalisti arabi. Le truppe inglesi, di stanza nel Paese, sedano le violenze solo al terzo giorno, quando il peggio è accaduto. Per gli ebrei di Libia è la fine di un mondo. Il violento pogrom non è isolato e ha parallelismi profondi con quanto accade in altre parti del mondo arabo, come i moti antiebraici in Egitto e le devastazioni subite dalla comunità ebraica irachena con il colpo di Stato filonazista del 1941.

Per gli ebrei di Libia, il pogrom è inatteso – perché ormai si pensava che il peggio era alle spalle – e rappresenta una frattura nel tempo e nello spazio. Ma lasciare il Paese non è possibile: le frontiere verso il nascente Stato di Israele a cui l’intera comunità guarda come alla realizzazione di una profezia messianica, sono ermeticamente chiuse. Ciononostante in centinaia sfideranno il mare, raggiungendone fortunosamente le coste. Consapevole dei pericoli, la comunità si organizza. Si procura armi e nell’attesa di una nuova aggressione – che si verifica puntualmente tre anni dopo – si addestra in segreto. L’addestramento condotto dalle organizzazioni giovanili sioniste, coinvolge giovani maschi e femmine che avranno un ruolo decisivo nella difesa del quartiere ebraico e nella controffensiva contro gli aggressori. L’intervento delle truppe britanniche riporta il Paese alla calma ma la presenza millenaria degli ebrei in Libia volge alla fine. Con l’accordo siglato – sotto gli auspici anglo americani – fra le autorità del nascente Stato libico e la direzione comunitaria, gli ebrei potranno lasciare in massa il Paese per Israele. Nel giro di pochi anni l’85% degli ebrei di Libia lascerà il Paese per Israele.

Un’epopea dell’emigrazione in cui il dolore per le perdite subite è trasfigurato in un sogno di rinascita messianico, le sofferenze per un decennio di persecuzioni ininterrotte sono sublimate dalla speranza di una vita diversa nella “Terra dei Padri”. L’esilio e la fuga vengono rappresentati come esodo e rinascita. In base all’accordo con le autorità del futuro Stato libico, per lasciare il Paese, gli artigiani ebrei devono insegnare a chi è loro subentrato per pochi soldi, le segrete arti di un mestiere che per secoli ha profondamente caratterizzato la presenza ebraica nel mondo arabo. Il terzo pogrom del ‘67 avviene in presenza di una comunità ormai piccola, di poche migliaia di persone, molti dei quali avevano un passaporto europeo, italiano, britannico o francese, mentre una parte era senza documenti. La cittadinanza libica infatti fu concessa solo a pochi ebrei. Col passare degli anni, i passaporti libici tendevano a non essere rinnovati alla scadenza naturale. In questa situazione chi non aveva un passaporto europeo, rischiava di ritrovarsi nella condizione di apolide. Giunti in Italia dopo il pogrom del ‘67, gli ebrei “apolidi” non potevano essere riconosciuti come tali dall’Alto commissariato delle Nazioni unite, in quanto la loro fuga non era avvenuta da un Paese dell’area sovietica.

Qual è il rapporto fra arabi ed ebrei in Libia tra Ottocento e Novecento?

La riconquista ottomana della Libia verso la metà dell’Ottocento rappresentò per gli ebrei libici un grande miglioramento rispetto agli arbìtri della precedente condizione sotto gli arabi. Gli Ottomani erano più tolleranti nei confronti delle minoranze. Avevano una visione imperiale del rapporto fra centro e periferia in cui le minoranze avevano un loro status riconosciuto che in pieno Ottocento – sotto la spinta delle pressioni esercitate dalle Potenze europee – si era andato ampliando, creando per reazione un crescente malessere e ostilità fra la popolazione araba, con esplosioni crescenti di violenze ai danni delle minoranze cristiane nel mashraq. Con il ritorno degli Ottomani, il miglioramento delle condizioni di vita della minoranza ebraica in Libia, avveniva all’interno di un quadro istituzionale di dominazione islamica, che non modificava l’assunto attraverso cui la maggioranza islamica si autorappresentava rispetto agli ebrei. Non per caso quando il regime ottomano discusse dell’arruolamento militare degli ebrei, una delegazione ebraica si rivolse alle autorità affermando che gli ebrei non avrebbero potuto svolgere una tale funzione fintanto che non fosse stata estesa agli arabi locali.

Con l’arrivo degli italiani, in analogia a quanto accade per altre minoranze religiose nel mondo arabo con il passaggio sotto il dominio francese e britannico, gli ebrei cessavano di essere sudditi dell’islam, con tutto ciò che questo comportava in termini psicologici. Il cambiamento di status degli ebrei è stato largamente percepito dalla maggioranza islamica come una fonte di “umiliazioni” aggiuntive, che stravolgevano gerarchie di rapporti e di dominio considerate come “naturali” e immodificabili. In questa logica gli ebrei, diventavano ontologicamente colpevoli di avere violato l’ordine su cui poggiavano i rapporti tra maggioranza islamica e minoranze “protette” e “tollerate”.

Nel libro si parla degli ebrei di Libia attribuendo loro un’identità religiosa molto solida, facendo poi un parallelismo con gli ebrei che erano in Italia. Può dire di più a questo proposito?

Gli ebrei di Libia subiscono certamente l’impatto della dominazione italiana, ma se le altre dominazioni europee nel tempo hanno prodotto delle fratture all’interno delle comunità ebraiche locali, in Libia non è avvenuto altrettanto. Per fare un parallelismo, in Algeria – dove la dominazione francese è iniziata ben prima, ovvero nel 1830 – la “francesizzazione” degli ebrei algerini ha creato all’interno della comunità strati diversi. Per cui, in Algeria troviamo persone che si sono identificate col nazionalismo francese e anche nel dibattito sul sionismo c’erano esponenti culturali di spicco contrari o neutrali, che si identificavano nei valori universalistici declinati in opposizione alla loro appartenenza di origine.

In Tunisia, invece, troviamo comunità influenzate dalla presenza francese ma troviamo anche gli ebrei di origine spagnola, che col tempo diventeranno – grazie ai contatti con Livorno – un importante veicolo della presenza culturale italiana nel Maghreb. Una comunità colta e cosmopolita di cui ritroveremo alcuni esponenti nel Parlamento italiano all’indomani della Liberazione (il sindaco Maurizio Valenzi di Napoli è un esempio). Una comunità piccola e italianizzante che all’epoca del regime di Vichy troverà, paradossalmente (ma non più di tanto), protezione da parte delle autorità italiane preoccupate del fatto che l’eliminazione della loro presenza dal tessuto sociale, economico e culturale del Paese avrebbe danneggiato gli interessi italiani.

Nel caso specifico della Libia, la dominazione italiana è durata 32 anni (dal 1911 al 1943): un periodo relativamente breve in cui gli ebrei, dopo essere stati ambiguamente considerati come un ponte verso il mondo arabo, saranno poi emarginati e apertamente perseguitati. L’arrivo degli Alleati a Tripoli dopo la sconfitta delle potenze dell’Asse a El Alamein, rappresenta la fine di un incubo. Ma, due anni dopo, c’è un sanguinoso pogrom, che mina alle radici l’idea di una convivenza futura la maggioranza islamica. La storia ebraica nel Paese volge al termine e se le porte di Israele non fossero ancora ermeticamente chiuse dalle batterie costiere britanniche, la comunità vi si sarebbe trasferita in massa.

Tre anni dopo c’è un secondo pogrom, cui gli ebrei di Tripoli sapranno opporre un’efficace resistenza ma appena possibile circa l’85% degli ebrei di Libia deciderà di trasferirsi nell’appena nato Stato d’Israele. Restano circa 4.000 ebrei, una buona parte dei quali può contare all’occorrenza sulla protezione di un’ambasciata europea, e che due decenni dopo – in seguito a un altro pogrom – troveranno in larga parte rifugio in Italia e in Israele. Una storia che ha molti punti di contatto con quella dell’ebraismo italiano, ma che rimane profondamente diversa perché gli ebrei italiani erano parte integrante della comunità nazionale, avendo attivamente partecipato al movimento risorgimentale, con cui erano pienamente identificati e a cui devono la loro emancipazione dopo secoli di esclusioni e persecuzioni della Chiesa. Pari ad appena l’uno per mille della popolazione, costituivano il 7% del corpo docente universitario ed erano presenti con ruoli importanti in ogni ambito della vita del Paese, dalla politica all’esercito e alle professioni.

Caso unico in Europa, a parte l’Unione sovietica (ma quella è un’altra storia), gli ebrei possono assurgere alla carica di ministri e in un caso alla Presidenza del Consiglio. Diventare da un giorno all’altro dei paria sociali, bollati come “razza nemica” e “straniera” da escludere e combattere, comporta una frattura psicologica insanabile che obbliga a un ripensamento generale della propria storia ed esistenza. Negli anni Venti e Trenta, dunque, il sionismo aveva rappresentato per molti giovani una via di uscita al clima culturale e politico asfittico che il fascismo aveva violentemente imposto, in cui il sogno di una rinascita nazionale nella “Terra dei padri” si accompagnava a una riscoperta religiosa e identitaria dell’appartenenza. Sebbene i segni della deriva antisemita del Paese appaiano retrospettivamente visibili alla fine degli anni Venti (il Concordato segnerà una cesura importante), la violenza delle persecuzione si era abbattuta come un fulmine trasformando la vita in un vero e proprio incubo. Dopo di che con il crollo del Regime nel settembre del ‘43 e l’occupazione nazista del Centro nord del Paese, si vedranno braccati al fine di essere deportati e sterminati in massa.

All’indomani della guerra, chi è fuggito difficilmente farà ritorno. Chi si è trasferito in Israele ha lì una patria ritrovata. Chi ha trovato rifugio in America Latina, in Usa e nel Regno Unito, ricostruirà lì la sua vita spezzata, conservando i rapporti con chi è rimasto e si è salvato nascondendosi o combattendo nelle fila della Resistenza. Nonostante la rappresentazione di cui fu circondato dalla narrativa del Dopoguerra, il contributo ebraico alla lotta di Liberazione fu in percentuale enorme. I partigiani furono circa duemila, 100 i decorati. All’indomani della guerra per frenare il declino demografico, potranno contare sull’arrivo di ebrei dall’Est Europa. Negli anni Cinquanta e Sessanta sarà la volta degli ebrei in fuga dal mondo arabo e islamico (libanesi, siriani, irakeni, persiani, egiziani, libici) che sono oggi un elemento costitutivo dell’Ebraismo italiano.

Nel libro troviamo una citazione di Se questo è un uomo in cui Primo Levi vede gli ebrei libici reclusi – come lui era stato nel campo di Fossoli – , in preghiera la notte prima della deportazione, provando per loro una grande empatia.

Il brano in cui Levi descrive il lutto degli ebrei di Tripoli e la preghiera funebre prima della deportazione è di una bellezza unica e di una grande valenza poetica e letteraria. Intenso e carico di empatia verso quella povera gente trascinata prima dalla periferia dell’Impero. Un brano che segna uno spartiacque con la descrizione successiva («L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci»). Ho conosciuto Levi agli inizi degli anni ’80, e dalla conoscenza nacque un’amicizia fatta di poche parole, ma intensa. Non dimenticherò mai il nostro primo incontro al convegno sulla rivolta del Ghetto di Varsavia del gennaio del 1984 che avevo organizzato con Guido e Anna Maria Fubini e Marco Brunazzi. Levi ci aveva dato un grande mano, scrivendo una delle introduzioni agli Atti del Convegno. «Adesso ci possiamo abbracciare», furono queste le sue parole.

Il ricordo per la sua tragica scomparsa non ha cessato di tormentarmi. Letta retrospettivamente la sua ultima grande opera (I sommersi e i salvati), ha fatto emergere un lato che la sua prosa marmorea aveva “nascosto”, consegnandolo alla poesia e alle tante mezuzoth con cui ha costellato le sue opere di prosa e di invenzione. Come nella poesia di apertura di Se questo è un uomo in cui rilegge laicamente i brani dello Shema’, non c’è una sua opera in cui il testo della prosa e del racconto non sia illuminato da un rimando poetico che suona come il controcanto di una mezuzah posta sugli stipiti della porta di ingresso.

Qual è stato il suo vissuto del percorso di integrazione
in Italia?

La mia infanzia è stata segnata da un pensiero angosciante che non mi ha mai abbandonato. La memoria dei pogrom erano parte dei miei pensieri e delle mie meditazioni. Facevo parte di una grande comunità che se n’era andata via. I nonni, gli zii, i cugini di cui sentivo parlare in casa erano nella Terra promessa e noi eravamo intrappolati in un Paese che nonostante il crescente benessere, diventava ogni giorno più insicuro. Una insicurezza che percepivo nelle viscere e che era parte di un vissuto familiare largamente condiviso. Guardavo il mare sognando di essere in una nave che mi avrebbe portato nel paese dei miei sogni, dove avrei incontrato i nonni, gli zii e i cugini, un paese in cui sarei vissuto libero dalle paure quotidiane in cui era avvolta la mia esistenza. In un sogno fatto tra i dodici e i tredici anni, dal balcone di caso illuminato dalle stelle una grande mano bianca come le nuvole di muoveva nel cielo, proteggendo e benedicendo le persone affacciate alle finestre del Palazzo dove abitavano. Sentivo alzarsi in cielo il canto di Vaikhullù che si recita la sera del venerdì prima del pasto sabbatico.

Nel sogno l’esilio era un esodo e la mano bianca colore nuvola che ci proteggeva era la stessa che aveva reso l’arsura del deserto più sopportabile per coloro che avevano lasciato l’Egitto. Come loro anch’io avrei trovato la manna sulla mia strada. La mia vita spezzata e il sentimento di estraneità in cui ero avvolto, non sarebbero durati per sempre. Un giorno avrei anch’io lasciato il luogo in cui ero nato per il Paese dei miei sogni. Il pogrom del 1967 fu per me la conferma di quel che avevo sempre temuto. Non c’era per me nulla di inatteso. Il problema vero era uscirne vivi.

Nelle pagine conclusive del saggio parla della frattura che si produce nella coscienza di chi lascia per sempre i luoghi di nascita, senza mai più farvi ritorno. 

Per molti anni ho vissuto come se l’esperienza della mia infanzia fosse appartenuta al passato più remoto. Un grande spartiacque divideva la mia vita: il prima e il dopo erano fra loro irriducibili, anche se erano trascorsi pochi anni. Una frattura nel tempo. Ho poi compreso che il mio sentire risponde a uno schema. Nel mio dolore non ero solo. Decine di migliaia di ebrei che avevano forzatamente lasciato i Paesi arabi ne condividevano la struttura. Gli attori dei ricordi possono avere trascorso l’infanzia, la giovinezza, a mille e più chilometri di distanza dai luoghi in cui vivono ora – Roma, Parigi, New York, Londra o Tel-Aviv. Lo schema non cambia. La frattura coinvolge il tempo e lo spazio. Solo a distanza di molti anni, con le generazioni che non hanno conosciuto direttamente quel passato, i legami hanno cominciato timidamente a riannodarsi, rinnovando l’interesse per i luoghi e le abitudini. Impegnato a sostegno del dialogo e per una composizione politica e pacifica del conflitto mediorientale, l’idea di un ritorno al mio Paese natale, anche per una breve visita, non mi aveva mai sfiorato. Non c’era più nulla che mi legasse a quel passato. Mi ritenevo fortunato fortunato – e lo sono! – perché sono uscito con i miei famigliari.

Il legame tra le generazioni non si è spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la gente ha potuto crearsi una nuova vita libera in luoghi più ospitali. Tuttavia vi è sempre qualcosa d’inquietante nel ritenersi “fortunati”, perché altri hanno avuto un destino inenarrabile. Le emozioni possono però sciogliersi quando meno te l’aspetti, nell’incontro con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo. Sul tabellone che indica i voli in partenza, due scritte ben distinte (Roma-Tel-Aviv, Roma-Tripoli) mi apparvero un giorno come sovrapposte. Mi sembrava che un luogo portasse all’altro e da uno si potesse tornare all’altro. Come in sogno ero lì, qui e altrove. La mia Tripoli aveva viaggiato con me, era parte del mio mondo onirico, con la sua musica, le sue sinagoghe, il deserto e la brezza marina. La mia coscienza vigile poteva cedere a una piacevole fantasia.

Ph. Scuola ebraica nella sinagoga di Bengasi prima della Seconda guerra mondiale

Pubblicato su Confronti 3/2021

David Meghnagi

David Meghnagi

Psicologo e psicanalista, ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Università Roma Tre.

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