di Asia Leofreddi. Redazione Confronti
Mentre il mondo ha gli occhi puntati sulla Turchia e il suo ritiro dalla Convenzione di Istanbul, l’Unione europea non se la passa meglio.
Il 30 marzo di quest’anno l’offensiva è ufficialmente iniziata anche in Polonia. Con 250 voti a favore (quasi tutti del partito al governo ultraconservatore Diritto e giustizia – PiS) e 188 contrari, il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, ha infatti rinviato a ulteriori lavori delle commissioni il progetto di legge “Si alla famiglia, no al gender”, proposto dall’organizzazione Ordo Iuris e dal Congresso sociale cristiano e firmato da 150mila persone. Presentato per la prima volta in Parlamento il 16 marzo da Marek Jurek, ex deputato e ex presidente del Sejm durante il governo di Aleksander Kaczyński, il progetto mira all’uscita dalla Convenzione di Istanbul della Polonia e alla sua sostituzione con un nuovo trattato internazionale chiamato Convenzione sui diritti della famiglia o convenzione di Varsavia.
Usando delle argomentazioni simili a quelle delle autorità turche, Marek Jurek, nel suo discorso al Parlamento, ha detto che la legge penale polacca è sufficiente a garantire la protezione delle donne. In un’intervista allo schierato Visegrad Post ha aggiunto: «Ogni paese civile lotta contro la violenza domestica e la violenza sessuale, e l’unico valore aggiunto da questa convenzione è l’ideologia del gender che sottende. L’articolo 12 della Convenzione di Istanbul pretende di sradicare i “ruoli stereotipati” per uomini e donne. Non c’è ruolo di genere più “stereotipato” che nel matrimonio e nel ruolo di padre e madre. La costituzione polacca protegge il matrimonio e la maternità come valori sociali, mentre questa convenzione si basa su valori completamente diversi».
Una battaglia iniziata già nel 2015
Promossa dal Consiglio d’Europa per definire un livello minimo di tutela contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, la Convenzione di Istanbul è stata firmata da Varsavia nel 2012 e ratificata nel 2015, sotto il governo del partito liberale Piattaforma Civica (PO). Fin dalla propria vittoria elettorale, il partito Diritto e giustizia (PiS) – attualmente al governo – si è sempre espresso contro l’adesione alla Convenzione. Tuttavia, è dall’anno scorso che il campo ha iniziato a essere preparato per una recessione ufficiale. A luglio 2020, il ministro della giustizia Zbigniew Ziobro, membro del Pis, aveva detto che avrebbe avviato il processo formale per il ritiro della Polonia dal trattato, che già nel 2015 aveva definito “un’invenzione, una creazione femminista con lo scopo di giustificare l’ideologia gender”. Negli stessi giorni, il ministro della famiglia Marlena Maląg, intervistata dall’emittente radiofonica cattolica Radio Maryja, aveva parlato di un’azione coordinata tra il suo ministero, quello della giustizia e quello degli esteri per apportare delle modifiche sostanziali al documento del Consiglio d’Europa. In contemporanea, infine, era iniziata anche la raccolta firme dell’Istituto Ordo Iuris e del Congresso sociale cristiano per il progetto “Si alla famiglia, no al genere”, con il quale sono state raccolte tra l’estate e la fine del 2020 150.000 firme.
Un progetto internazionale che mira all’Unione europea
Tuttavia, come si legge nel documento presentato al Sejm, lo scopo del progetto della destra polacca non è soltanto uscire dalla Convenzione di Istanbul, ma anche rimpiazzarla con un nuovo trattato internazionale chiamato Convenzione sui diritti della famiglia o Convenzione di Varsavia. L’azione, dunque, non è confinata a livello nazionale, ma aspira a intervenire sulle istituzioni dell’Unione europea, rendendo la Polonia capofila di un progetto politico alternativo che mette insieme i paesi dell’Europa centro-orientale che già si sono rifiutati di ratificare il trattato del Consiglio d’Europa (Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria) e altri che, si spera, riusciranno a rinunciarvi nei prossimi anni (per esempio la Croazia). Lo ha spiegato lo stesso Murek sempre al Visegrad Post «il progetto di legge Si alla famiglia, no al gender, è diviso in due parti. La seconda parte obbliga il governo polacco a presentare la Convenzione sui diritti della famiglia ai suoi partner internazionali… Poiché la Polonia è il paese più grande tra quelli dell’Europa centrale che non hanno ratificato questa convenzione, il suo ritiro dalla convenzione di Istanbul è una condizione necessaria per costruire un’Unione basata sul rispetto e la cooperazione tra le nazioni».
In realtà l’offensiva internazionale sembra già essere partita lo scorso anno. Balkan Insight, infatti, ha pubblicato sul suo sito una lettera inviata dal ministero della giustizia polacco a almeno quattro governi della regione (Croazia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia), in cui espone in cinque pagine la sua idea per un’alternativa alla Convenzione del Consiglio d’Europa. Nonostante il ministero neghi ogni relazione con le organizzazioni non governative, le idee esposte nella lettera sembrano essere un riassunto del progetto per la convenzione internazionale sui diritti della famiglia preparato dall’Istituto Ordo Iuris in collaborazione con l’ex deputato polacco Marek Jurek del Congresso Cristiano Sociale, lo stesso presentato in parlamento il 16 marzo.
Cosa dice la Convenzione sui diritti della famiglia?
La bozza della nuova Convenzione può essere letta integralmente sul sito di Ordo Iuris, in cui, in linea con le aspirazioni internazionali dell’organizzazione, è possibile trovare tutti i post, gli articoli e i documenti prodotti sia in polacco che in inglese. Come si legge, lo scopo del nuovo trattato non è più difendere le donne, ma la “famiglia tradizionale” basata sul matrimonio tra uomo e donna e definita come «il fondamento dell’ordine sociale e unità fondamentale della società, che precede lo Stato ed è indipendente rispetto alle autorità pubbliche». Il documento consta di 9 capitoli e 52 articoli. Come per l’articolo 2 della Convenzione di Istanbul, l’articolo 1 definisce una serie di termini chiave. Tuttavia, dalla Convenzione sulla famiglia spariscono i termini “violenza nei confronti delle donne”, “donne” e “vittima”, sostituiti da “matrimonio”, “famiglia” e “interesse dei bambini”. Ma a essere più lampante è la sostituzione del termine “genere” – definito dal Consiglio d’Europa come i «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini» – con quello di “sesso” – definito dagli avvocati di Ordo Iuris come «l’insieme delle caratteristiche biologiche che permettono una differenziazione oggettiva tra uomo e donna».
Movimenti anti-gender e guerre culturali, uno schema che si ripete
Quello che sta accadendo in Polonia sulla Convenzione di Istanbul può essere ancora una volta ascritto alla più ampia strategia, ormai collaudata in molti Stati dell’Europa centro-orientale (e anche occidentale) di trasformare frustrazioni e insicurezze sociali in guerre culturali, con gravi ripercussioni per i diritti delle donne e delle minoranze sessuali, etniche e religiose. Un fenomeno che vede protagonisti partiti populisti di destra, come il PiS polacco o il Fidesz ungherese, e i cosiddetti movimenti anti-gender, organizzazioni fondamentaliste cristiane transnazionali, impegnate nella difesa della famiglia tradizionale a discapito dei diritti umani sessuali e riproduttivi delle donne e delle persone LGBTQI. Questi attori agiscono contemporaneamente sul piano nazionale e internazionale, con lo scopo non soltanto di modificare gli assetti giuridici e sociali dei paesi in cui hanno le loro sedi, ma anche di destabilizzare le istituzioni europee e intergovernative mondiali.
Come ha dimostrato Neil Datta nel suo report magistrale Ristabilire l’ordine naturale, in cui si rivelavano obiettivi e strategie della rete europea di ultraconservatori Agenda Europa, nel 2018 la decisione di non ratificare la Convenzione di Istanbul da parte di Bulgaria e Slovacchia fu il risultato di un’azione coordinata tra l’organizzazione internazionale Alliance defending freedom, alcune organizzazioni locali parte della stessa rete e i membri dei partiti di destra allora al governo. Lo stesso vale oggi per la Polonia. Come già abbiamo visto con la promulgazione della legge anti-aborto dell’ottobre di quest’anno, anche in questo caso è stata la saldatura tra l’Istituto Ordo Iuris e le forze politiche a avere un peso determinante per l’avvio di un percorso di uscita ufficiale dalla Convenzione di Istanbul. Ordo Iuris, però, lontana da essere un’organizzazione non governativa nazionale, è al contrario un ente con profonde ramificazioni internazionali. Oltre a essere parte di una rete transnazionale di ultraconservatori chiamata Tradition, Family and Property (TPF) che riunisce insieme circa 40 organizzazioni di ispirazione cattolica, è anche la “madre” di una serie di organizzazioni gemelle attive in Estonia, Slovacchia, Svizzera, Croazia e i Paesi Bassi. Inoltre, nel febbraio 2017, ha ottenuto lo status consultivo presso le Nazioni Unite e, a maggio dello stesso anno, ha registrato una sede nel distretto dell’UE a Bruxelles. Dove, nel 2018, con il sostegno di altre organizzazioni est-europee affiliate a TFP, ha presentato al Parlamento europeo un’alternativa alla Convenzione di Istanbul, la stessa guarda caso di cui oggi si parla nel Parlamento polacco.
Una società civile instancabile
Ormai, però, nonostante i successi portati a casa, il governo di Andrzej Duda deve fare i conti con una società civile sempre più organizzata e un’opposizione parlamentare sempre più vigile. Dal 16 marzo, infatti, nelle strade di Varsavia si sono riversati i membri delle organizzazioni più attive nelle proteste pro-aborto dell’ottobre-dicembre 2020. Le rappresentanti del movimento femminista lo Sciopero delle donne (Strajk Kobiet) si sono riunite davanti al Sejm, mostrando cartelli con su scritto «Non è il genere che mi perseguita, ma Ordo Iuris» e gridando «State distruggendo la Costituzione, noi facciamo la rivoluzione». Allo stesso tempo, l’organizzazione non governativa Akcja Democracja ha inviato più di tre milioni di email per informare la cittadinanza di quanto stava avvenendo e preparato striscioni a forma di mano con lo slogan «Sì alla Convenzione contro le molestie, no alla legalizzazione della violenza domestica» da distribuire ai membri dell’opposizione, i quali li hanno mostrati in Parlamento durante la sessione di voto. Tutte azioni che, anche se non hanno portato al rigetto del progetto presentato alla Camera, quantomeno ne hanno rallentato l’attuazione.
La speranza, quindi, è tutta nell’azione di questa società civile, intenzionata a tutti i costi a salvare la Polonia da una deriva che sembra ormai inarrestabile. Una società civile che ci sta insegnando tanto, la quale però deve continuare a essere supportata sia dalle istituzioni europee che dallo sguardo vigile dei media e dei movimenti progressisti di tutta Europa, perché, ormai lo sappiamo, la Polonia riguarda potenzialmente il futuro di ognuno di noi.
Ph. © Jakub Zabinski / CopyLeft
Asia Leofreddi
Redazione Confronti