di Silvia Resta. Giornalista televisiva
(Intervista a cura di Claudio Paravati e Chiara Di Giorgio)
Il 2001 era l’anno della “legge Bavaglio” del governo Berlusconi, l’Italia scivolava al 61simo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporter senza frontiere. Silvia Resta, giornalista televisiva, avviava in quei giorni un dialogo con Massimo Rendina, “Max” il suo nome da combattimento, da partigiano col tesserino da giornalista in tasca. Per la casa editrice All Around, col titolo Il giornalista partigiano Conversazioni sul giornalismo, possiamo oggi leggere quel dialogo. Le parole di Rendina ci riportano alla sua vita, sempre appassionato difensore della libertà di stampa e d’espressione, del diritto dei cittadini all’informazione, della professione giornalistica come servizio pubblico, come libertà e indipendenza. Fu il primo direttore di telegiornale della RAI, cacciato nel 1956 per la sua ostinata e ferma presa di posizione per l’indipendenza dell’informazione. Oggi lo ricordiamo grazie al libro di Silvia Resta, che abbiamo intervistato. Perché il 25 aprile sia anche all’insegna dell’articolo 21 della Costituzione.
Secondo Rendina «il giornalismo di liberazione doveva informare e raccontare i fatti secondo i nuovi criteri di indipendenza e trasparenza, attrarre la gente, i cittadini, discutere dei problemi e partecipare alla vita pubblica». Una lezione che non è invecchiata di un giorno.
Assolutamente sì. È una rotta, una direzione che rientrava nei valori di quello che Rendina chiama “giornalismo di liberazione”. Lui, che è stato partigiano, in prima fila, nella brigata Garibaldi come protagonista della liberazione di Torino, racconta nel libro questo lungo viaggio del giornalismo, a partire dalla liberazione sino al nostro presente. Questo è un po’ lo spirito del libro. Forse nessuno aveva fatto finora, dal punto di vista dell’analisi di chi ha combattuto nella Resistenza col tesserino in tasca, un’esplorazione di questo tipo. Un percorso sul giornalismo e sulla libertà di stampa, che con il Fascismo era stata soffocata; e che poi rientra – proprio come racconta Massimo Rendina – nei valori della Resistenza. È un ingrediente della Resistenza: i partigiani combattevano per una stampa libera, per il ritorno ai giornali “alla luce del sole”. C’era la volontà di essere protagonisti, e Rendina ci dice come le redazioni fossero aperte, luogo di dialogo, mentre si preparavano le prime elezioni libere dal Fascismo.
Una storia che parte dalla libertà e dall’indipendenza del giornalismo, ma che negli anni a venire non sempre è stata facile.
È Rendino stesso a raccontarcelo. Le redazioni erano un centro di dibattito; quello spirito di un’informazione democratica, trasparente, slegata dai poteri e dunque indipendente, via via va perdendosi per tre ragioni fondamentali che lo hanno determinato. Il fatto che i giornalisti fascisti erano da un giorno all’altro diventati anti-fascisti, rientrando subito nel circuito, andando ad occupare anche delle caselle importanti. Diventano direttori, caporedattori. Questo è un primo elemento di freno.
Un secondo elemento è l’invadenza della politica negli organi di stampa – che vedremo anche nella sua esperienza diretta nella RAI. Infine, la mancanza di un editore puro, ovvero di un imprenditore che volesse fare informazione per motivi di impresa, di mercato. Da subito, dice Rendina, tutti gli editori sono stati rappresentanti di interessi di parte. Questi sono i tre punti che lui individua come elementi di freno di una libertà di stampa vera.
Il 25 aprile, da questo punto di vista, grazie alla sua testimonianza, deve essere ancora un motivo per non smettere di monitorare la libertà di stampa e d’espressione nel Paese.
Negli anni in cui ho intervistato Rendina, sicuramente l’informazione in Italia era sprofondata in una brutta stagione e quindi il tema era scottante. Tutt’ora lo è perché sicuramente non abbiamo un giornalismo controllore del potere in questo Paese. Lo vediamo in ogni passaggio di governo, in ogni cambio di stagione…anche per i giornalisti c’è il cambio di stagione come per i capi di abbigliamento. Quello che racconta Rendina è una visione che rimane molto, molto attuale. Mi ha colpito la modernità di questo messaggio, di quest’uomo che nel momento del suo declino era apertissimo all’utilizzo delle tecnologie: guardava con fiducia al web, alla globalizzazione della comunicazione in questo senso. Tenendo sempre fermi quei valori della trasparenza, dell’indipendenza: parlava già all’ora delle fake news e di come difendersi. Questa sua modernità è assolutamente attuale.
Informazione come bene comune: il giornalismo ha un ruolo da questo punto di vista, per oggi e per domani, ancora da svolgere?
Assolutamente sì, questo è lo spirito del nostro mestiere. Ognuno di noi, operaio dell’informazione, sa che il suo è un lavoro di servizio pubblico, o per lo meno dovrebbe saperlo. Questo è un bene comune e quando ci sono degli attacchi alla libera informazione, sono attacchi a tutti i cittadini e al loro diritto di rimanere informati.
Vorrei infine ricordare l’episodio di quando Massimo Rendina venne cacciato dalla RAI. Lui ci racconta di questa televisione in bianco e nero che di colpo esplode come fenomeno popolare, in cui ci si muoveva come pionieri. C’era una creatività, era un momento di fermento assoluto, che però ci fa capire la forte pressione della politica, anche un po’ ottusa. Questo è dunque l’episodio; durante la festa della Befana del 1956 donna Rachele Mussolini, moglie del Duce, distribuiva dei doni; Fernando Tambroni, allora al governo come Ministro dell’Interno, voleva assolutamente un servizio al telegiornale. Lui, quando arriva la pellicola con le registrazioni dell’evento, prende le forbici e la tagliuzza in tanti pezzi, dicendo che il servizio è rovinato e non può andare in onda.
Questo è forse un gesto di disobbedienza, come lo chiamerebbe qualcuno, e invece lui lo rivendicava come un gesto di coerenza. «Io, giornalista partigiano, che ho lottato per quei valori, non posso permettere questa invasione di campo» diceva. Per questa ragione lui venne mandato via su due piedi. È stato il primo direttore effettivo del telegiornale della RAI, dopo una fase di sperimentazione a guida di Vittorio Veltroni, che poi morì. Credo che meriti di essere ricordato e che la RAI gli dovrebbe un tributo di memoria e di apprendimento della sua lezione. Un riconoscimento, anche se tardivo, glielo dovrebbe.
Silvia Resta
Giornalista televisiva