di Rayan Atto. Parroco della comunità caldea di Göteborg
(Intervista a cura di Luca Attanasio)
«Nella terra di Abramo non abbiamo mai passato neanche un secolo intero in pace, speriamo di inaugurare una nuova era e che la visita del Papa sia l’inizio». Comincia così, con un grido che vorrebbe essere di sola speranza ma si strozza al pensiero della storia martoriata dell’Iraq, la chiacchierata con padre Rayan Atto, prete caldeo nato e cresciuto a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, dal 2018 parroco della comunità caldea di Göteborg, Svezia. Impossibilitato a raggiungere la sua terra in occasione della visita del Papa a causa di impedimenti anche legati alle misure anti-covid, ha seguito a migliaia di km di distanza ogni minuto dello storico viaggio. A Confronti Weekly propone un suo commento, parla del momento dell’Iraq, della situazione dei cristiani, confida le speranze per il futuro.
Quali erano le aspettative per il viaggio del papa in Iraq?
A essere sincero, fino all’ultimo ho temuto che il viaggio non si facesse. Per gli iracheni fu una grossa delusione il viaggio mancato di Giovanni Paolo II per l’apertura dell’anno santo del 2000: era previsto per il dicembre 1999, tutto era pronto ma all’ultimo è saltato. E anche per questa volta, fino a dieci giorni prima, serpeggiava un minimo di pessimismo: è sempre difficile venire in Iraq. E invece ce l’ha fatta ed è stato un importante seme lasciato nella terra. Una semina molto preziosa ma lasciata lì, sta al popolo non lasciarla incolta. «Vengo come pellegrino penitente» aveva detto prima di partire e questa sua predisposizione credo sia stata percepita come l’attitudine di un uomo umile che proponeva di ripartire di nuovo. Certo non sarà facile,, basta pensare alla storia dell’Iraq, qui sono passati tanti, l’impero persiano, quello sassanide, poi gli arabi, i mongoli e poi guerre su guerre e tantissime diversità. E le differenze possono essere ostacoli insormontabili da noi. Il Papa ha provato a trovare punti di congiuntura, ha voluto tutte le fedi sotto una tenda a fissare la casa di Abramo, a Ur dei Caldei [oggi Tell Al-Muqayyar]. Cristiani, sunniti, sciiti, yazidi, veramente insieme a riflettere su come ripartire, è come se avesse chiesto di spingere il tasto reset del computer e dare nuove opportunità di vita. I secoli ci insegnano che chi prende il potere da noi anziché lavorare su ciò che unisce, mette tanti diversi tasselli del mosaico al contrario, forse siamo stati noi a inventare il motto divide et impera, non i romani.
L’Iraq attraversa da tempo una profonda crisi politica, cominciata nell’autunno del 2019 in quella che è stata battezzata Primavera irachena, l’ondata di grandi proteste contro le politiche dell’allora primo ministro Adel Abdul Mahdi. Il 9 aprile il nuovo governo dell’ex capo dei servizi segreti Mustafa al Kadhimi, ha compiuto un anno. Com’è la situazione oggi? E che ruolo ha giocato la visita del Papa?
Il clima politico in Iraq è più diviso ora che dopo la caduta di Saddam Hussein. Ci sono stati tanti governi, ma nessuno è riuscito a imprimere quei cambiamenti che tutti si augurano, anche a causa delle numerose guerre e dello stato di tensione permanente che abbiamo vissuto in tante occasioni. Il viaggio del Papa si colloca in un momento di instabilità generale e regala un po’ di respiro. Ha messo d’accordo tutti e non sono state sollevate critiche, da nessuno. Fin da ottobre quando si cominciò a parlarne tutte le formazioni politiche e sociali si sono mostrate favorevolissime e le dirò di più, è stata proprio la visita del Papa a re-innescare un dialogo tra i partiti che prima non si rivolgevano neanche la parola. Il viaggio del papa ha acceso luci positive sul nostro martoriato Paese, ha riportato l’Iraq al centro del mondo ma non per la guerra, gli attentati, le violenze, o il petrolio, almeno non solo per quello. Prendiamo il caso di Ur di Caldei, un luogo importantissimo per l’umanità intera, a prescindere da fedi e religioni, con 7000 anni di storia. Sono certo che il mondo lo ignorasse o quanto meno non sapesse che è da noi, ora è tornato a parlarne e, spero, a desiderare di conoscerlo, di venirci, di approfondire la storia di un Paese meraviglioso ricco di arte e cultura. La storia dell’Iraq è molto più importante delle guerre e del petrolio.
Qual è stato il messaggio più potente che il viaggio del Papa ha lasciato, al di là delle parole?
Io credo che al governo abbia detto «tornate a essere fratelli o almeno a non sbranarvi, evitate con ogni sforzo ulteriori conflitti». Qualsiasi cosa succeda, dite no alle guerre. Questo è più importante del denaro ed è un messaggio di cui deve tenere conto anche la Chiesa stessa. Quando il Papa parla delle malattie dell’Iraq intende, tra le altre, la deificazione del denaro e la Chiesa, esattamente come la società, non è esente. I cristiani da noi sono fuggiti in massa o sono morti. I numeri, comprese tutte le altre chiese, sono esigui, nell’ordine di qualche decine di migliaia. Io spero che ci siano frutti per i cristiani, quindi, che escano da questa visita più uniti e che tornino a giocare un ruolo importante per la società, non solo per aumentare le proprietà. Penso che il nostro patriarca, il Cardinale Sako, stia agendo bene. Dopo la visita, ha incontrato i politici e rivendicato l’importanza dell’evento. E credo che un primo frutto sia stato la rinuncia alla decisione, caldeggiata da una parte dei movimenti politici islamici più radicali, di formare la Corte Suprema con membri religiosi, similmente a uno stato islamico. C’è stato un lungo dibattito in parlamento nei mesi precedenti ma dopo la visita del papa, il patriarca, sostenuto da molti imam, così come la gran parte dell’opinione pubblica, ha ottenuto una costituzione della Corte laica. Il passato del nostro amato Paese non invita molto alla speranza. Ma, da oggi, credo si possa dire che una piccola luce si sia accesa.
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Rayan Atto
Parroco della comunità caldea di Göteborg