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Per una musica “resistente”, anche quando discriminata

by Max De Aloe

di Max De Aloe. Armonicista e compositore, fondatore dell’etichetta discografica Barnum For Art, direttore del Centro Espressione Musicale di Gallarate e direttore artistico del MutaMenti Jazz Festival.

(Intervista a cura di Michele Lipori)

Nell’ultimo report della SIAE viene evidenziata in maniera evidente la crisi in cui versa il mondo dello spettacolo a causa del Coronavirus. In pandemia, gli eventi sono diminuiti del 69%, gli ingressi hanno segnato un calo del 79%, le spese dei botteghini sono scese del 77% e la spesa del pubblico ha avuto una riduzione dell’82%.

A questa fotografia bisogna aggiungere anche altre forme di guadagno, più informali ma molto diffuse, che sono difficilmente quantificabili. È il caso dei cosiddetti home concert, ovvero concerti organizzati dai musicisti stessi in abitazioni private. I e le partecipanti si auto-tassano dando un contributo direttamente al musicista, senza che ci sia bisogno di intermediari. Questo tipo di eventi sono sempre esistiti ma sono tornati in auge anche a causa della crisi che il mondo dello spettacolo stava vivendo ben prima dell’avvento del Covid. Anche se non quantificabile dalla Siae o dall’Agenzia delle entrate, questa è una forma di guadagno importante per tanti musicisti, soprattutto entry level, ma molto praticata anche da artisti che godono di un seguito anche ampio. Naturalmente, con la pandemia in atto, eventi del genere sono praticamente impossibili da realizzare e rappresentano un’ulteriore perdita di opportunità di guadagno per tanti musicisti.

Se le cose fossero più semplici e meno onerose sia per gestori di locali che per musicisti, il tutto sarebbe più gestibile e controllabile? 

Personalmente sono rimasto piacevolmente sorpreso dal mondo in cui la Siae è riuscita a sostenere i propri iscritti attraverso dei contributi più o meno consistenti. Tuttavia, a mio avviso una delle falle più grandi in questo ingranaggio – e che inevitabilmente crea delle disuguaglianze – è rappresentato da un’eccessiva tassazione dell’“anello debole” del sistema, ovvero i piccoli locali o gli eventi di piccola e media entità. Mi spiego meglio. Negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi, i piccoli locali possono pagare una tassa annua grazie alla quale poi sono liberi di organizzare degli eventi musicali. È questa una strategia che ho proposto anche all’Associazione italiana musicisti di jazz (Midj) e che sono sicuro rappresenterebbe un’opportunità di far ripartire ed anche crescere il settore musicale. In Italia, invece, gli organizzatori sono tenuti a sbrigare delle complesse pratiche burocratiche ogni volta che organizzano un concerto. Questa complicazione, insieme all’onerosità della tassazione, rappresenta un grande ostacolo per lo svolgimento regolare delle attività di tante realtà medio-piccole.

La farraginosità della macchina burocratica italiana si riscontra anche nella modalità di tassazione e di pagamento dei contributi dei musicisti. Bisogna pensare, infatti, che le persone che esercitano la professione di musicista e che quindi sono iscritti all’Inps nella gestione previdenziale ex Enpals sono tenuti obbligatoriamente al versamento del 33% del compenso pattuito (di cui circa il 10% è a carico del/della musicista e il resto a carico del committente). Si tratta di una somma molto alta che non sempre avrà un corrispettivo nel percepimento dei contributi. Inoltre, a complicare ulteriormente la situazione c’è il fatto che in Italia molto spesso chi offre una prestazione musicale non è un musicista professionista e in questi casi sono previste delle agevolazioni. Solo che questo genera delle disuguaglianze (oltre che a una “concorrenza sleale”), perché i gestori dei locali inevitabilmente preferiranno ingaggiare dei musicisti non professionisti se sono esentati dal versare loro dei contributi. La Siae e l’ex Enpals dovrebbero essere più attenti a questi aspetti, come anche alla tutela dei propri iscritti meno “influenti”, anche se bisogna ribadire l’importanza di questi organismi senza i quali i musicisti (e soprattutto i compositori) avrebbero molti meno diritti.

La crisi dell’industria culturale, però, esiste da prima del Covid

Assolutamente sì. Uno degli elementi più macroscopici è la crisi totale del mercato discografico, che ha determinato un impoverimento incredibile di tutta l’industria culturale legata alla musica. L’allargamento del fenomeno dello streaming, inoltre, sta creando delle fratture sempre più ampie all’interno degli stessi musicisti. Faccio un esempio. Se in passato un musicista produceva un disco con un’etichetta indipendente sapeva che avrebbe venduto un certo numero di copie di quel disco, in parte attraverso i distributori, in parte in maniera diretta (ad esempio, nei concerti). C’era dunque un ritorno economico che, seppur piccolo, consentiva di sostenere tutto ciò che c’è dietro alla produzione di un disco: lo studio di registrazione, tecnici del suono, grafici, editor… Da quando praticamente tutta la musica è stata disponibile sulle piattaforme online, le persone hanno iniziato a non comprare più dischi, affossando le realtà musicali medio-piccole. Lo streaming, inoltre, non paga. Le cifre che vengono corrisposte ai musicisti in base alle “visualizzazioni” o agli ascolti in streaming sono assolutamente irrisorie e dunque non sostenibili se non si può contare sul bacino di utenza di una superstar. Questo si verifica anche per quelle piattaforme che prevedono un pagamento mensile da parte dei fruitori. La conseguenza è un impoverimento culturale i cui effetti saranno devastanti sulla lunga distanza e che sono facilmente prevedibili: chi mai entrerà più in uno studio di registrazione, se già in partenza si sa che non verrà venduta neanche una copia del disco che si vuole produrre, o se l’ascolto in streaming del prodotto non genererà nessun indotto? Questo significa impoverimento, economico e culturale. La cultura – e quindi la musica – si sono da sempre avvalsi di contributi da parte di mecenati, finanziatori e sponsor di vario tipo. Senza la lungimiranza di questi investitori non avremmo avuto i dischi dei Beatles, un disco come The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd non sarebbe mai stato prodotto. Ma non avremmo avuto neanche avuto le opere Bach, Vivaldi e Mozart! 

Cosa ascolteremo tra dieci anni sulle piattaforme streaming?

Per quanto riguarda le grosse produzioni, ascolteremo sempre più spesso musica super-commerciale, sulla quale non c’è necessità di “scommettere” o di “sperimentare”; oppure cose prodotte da musicisti non professionisti, i quali – potendo contare su altri introiti – potranno sostenere le spese di uno studio di registrazione pur sapendo che mettere online il proprio prodotto non genererà alcun indotto. L’altra trappola dello streaming è che, sempre di più spesso, le piattaforme prevedono una quota per poter mettere online contenuti musicali il che – soprattutto per i musicisti giovani o che comunque non hanno un grosso seguito – rappresenta una doppia discriminazione e un vero e proprio ostacolo alla propria carriera. 

Cosa puoi dirci del sostegno dato agli e alle insegnanti di musica durante la pandemia?

Come direttore della scuola di musica Centro Espressione Musicale di Gallarate posso dire innanzitutti che i “ristori” sono stati stanziati, a parità di attività, in maniera diseguale ai vari insegnanti. Inoltre, almeno in Lombardia, quella degli insegnanti di scuole di musica come la nostra non è stata ritenuta una categoria professionale avente diritto ad accedere alle vaccinazioni e questo nonostante la lunga storia della scuola (esiste da 26 anni) e nonostante avessimo tutte le carte in regola in termini di abilitazioni e – di conseguenza – di oneri fiscali (per ogni transazione viene emessa fattura con una tassazione del 22%). Un’altro elemento discriminatorio è quello che nelle “zone rosse” non si possono vendere dischi, ma questo è un discorso molto complesso che ha a che fare con l’idea che il disco non abbia pari dignità del libro e dunque non possa essere considerato – anche in termini fiscali, dato che l’Iva per un libro è del 4% mentre per un disco è pari al 22 – un “bene di prima necessità”. A mio avviso questo trattamento impari fa ben comprendere quale sia la considerazione della musica in Italia. 

Quali potrebbero essere delle soluzioni per aiutare il mondo della musica?

Portare l’Iva al 4% sui dischi e sulla didattica musicale aiuterebbe migliaia e migliaia di persone che lavorano con la musica, come anche consentire delle agevolazioni sui permessi per fare musica dal vivo per locali con meno di 100 spettatori. Ma per far questo bisogna in primis capire che in Italia, come succede per altri settori, sono le realtà medio-piccole a generare – complessivamente – l’indotto maggiore. Dunque queste realtà andrebbero agevolate e non messe sempre in secondo piano rispetto a realtà (o artisti) che godono di un seguito maggiore. Faccio un esempio. L’accesso ai contributi del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) – che è il principale mezzo che i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo hanno per finanziare i propri progetti – è facilitato in maniera proporzionale alla celebrità dell’artista che li richiede. Se questo, da una parte, è comprensibile perché l’artista fa in qualche modo da “garante” sul prodotto che verrà finanziato, dall’altra genera disuguaglianza perché i  musicisti meno famosi avranno più difficoltà a far valere i propri progetti. Dalla mia esperienza posso dire che, invece, sono le piccole e medie realtà ad essere il vero “motore” culturale del Paese. È nei piccoli festival che si fanno le proposte più interessanti e quando la proposta è davvero valida – e non dettata unicamente da interessi economici – il pubblico risponde sempre positivamente. In tutti gli anni in cui sono stato direttore del Gallarate Jazz Festival e, attualmente, del MutaMenti Jazz Festival, non è mai stato un problema a “riempire i teatri” anche se in cartellone non sempre c’erano delle superstar. Il lavoro che ancora bisogna fare è di tipo culturale e, quindi, fare in modo che le persone giovani siano incentivate e abituate ad andare ai concerti. Per questo è fondamentale la collaborazione della scuola come istituzione. Bisogna riformare l’educazione e l’insegnamento della musica nelle scuole: è solo formando la cultura dei più piccoli che si investe nella cultura a lungo termine. Quello che sentiamo dopo 14 mesi di pandemia è ancor più solitudine e abbandono da parte delle istituzioni e non solo per quel che riguarda i finanziamenti economici ma perché non ci sentiamo protetti e tutelati.

Max De Aloe

Max De Aloe

Armonicista e compositore, fondatore dell’etichetta discografica Barnum For Art, direttore del Centro Espressione Musicale di Gallarate e direttore artistico del MutaMenti Jazz Festival

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