Un problema di convivenza. La fragile libertà religiosa in Myanmar - Confronti
Home RubricheData Journalism Un problema di convivenza. La fragile libertà religiosa in Myanmar

Un problema di convivenza. La fragile libertà religiosa in Myanmar

by Michele Lipori

di Michele Lipori. Redazione Confronti

Il Myanmar è un Paese con una composizione etnica estremamente variegata, lo dimostra il fatto che il governo riconosce ben 135 gruppi etnici distinti. Inoltre, convivono nel Paese almeno 108 diversi gruppi etnolinguistici riconducibili a quattro principali famiglie linguistiche: sino-tibetana, tai-kadai, austro-asiatica e indoeuropea.

Il Myanmar è di fatto un Paese multireligioso: non c’è alcuna “religione di stato” ufficialmente dichiarata, ma quella di gran lunga maggioritaria è il buddhismo Theravada (la “scuola degli anziani”), ovvero la più antica scuola buddhista tra quelle tuttora esistenti e largamente dominante in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico.

La religione, e in particolare il buddhismo, giocano un ruolo molto importante nella conformazione della politica in Myanmar. Basti pensare al fatto che il nazionalismo birmano si è plasmato intorno alla formazione dell’Associazione dei giovani uomini buddhisti (Ymba) che ha avuto un ruolo di prim’ordine nella lotta per l’indipendenza (è del 1916 la prima campagna in opposizione al dominio britannico) e nella formazione dello stato democratico.

Il legame con la politica si evince anche dal fatto che uno dei simboli del buddhismo birmano – la Pagoda Shwedagon a Yangon – è stato il teatro di molti avvenimenti storici del Myanmar contemporaneo. Proprio in questo luogo, nel gennaio 1946, il generale Aung San chiese a gran voce l’indipendenza (avvenuta nel 1948) ai britannici, chiedendo il sostegno alla popolazione lì presente. Quarantadue anni dopo, il 26 agosto 1988, sua figlia Aung San Suu Kyi si rivolse a una folla di oltre 500.000 persone per attuare la lotta nonviolenta per ottenere l’attuazione della democrazia da parte del regime militare allora al potere.

Una delle più recenti ondate di proteste a cui i monaci buddhisti hanno partecipato in gran numero è stata la cosiddetta Rivoluzione zafferano del 2007 innescatasi in seguito all’improvviso aumento dei prezzi della benzina e di generi alimentari dovuto all’interruzione dell’erogazione di sussidi governativi. Le proteste miravano inoltre ad ottenere dalla giunta al potere un’apertura democratica il rispetto dei diritti umani. La risposta del governo è stata la repressione con il conseguente imprigionamento di migliaia di monaci fra cui U Gambira, leader dell’All Burma Monks’ Alliance, condannato a 68 anni di carcere.

Oggi, la Ymba si identifica con l’esercito del Myanmar tanto da aver conferito il titolo di “patrono permanente” a Min Aung Hlaing, Comandante in capo delle Forze armate della Birmania dal 2011, proclamato il 1º febbraio scorso Presidente del Consiglio di amministrazione dello Stato (l’organo esecutivo della giunta militare) dopo la destituzione – da parte dell’esercito – del presidente Win Myint e la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi attraverso un colpo di Stato.

CRISTIANESIMO

Il cristianesimo è praticato da circa il 6,3% della popolazione del Myanmar (secondo i dati dell’ultimo censimento del 2016) e sono stati il gruppo religioso in più rapida crescita negli ultimi tre decenni (nel 1973 la percentuale di incidenza sull’intera popolazione del Myanmar era pari al 4,6%). Circa quattro quinti dei cristiani del Paese sono protestanti, in particolare battisti (la prima missione nel Paese è del 1813) della Convenzione battista del Myanmar. Seguono poi gli appartenenti alla Chiesa metodista (The United Methodist Church, Lower Myanmar Methodist Church), a quella anglicana (Church of the Province of Myanmar), e ad altre denominazioni della Chiesa riformata (Church of Christ in Thailand, Mara Evangelical Church). I cattolici romani costituiscono il resto.

INDUISMO

L’induismo è praticato attualmente dallo 0,5% della popolazione ma nell’antichità era largamente diffuso nel Paese, tanto da aver lasciato tracce evidenti nei toponimi (il termine inglese Burma, con il quale i britannici indicavano la regione, deriva da Brahma: una delle tre “persone” della “trinità” hindu). La maggior parte degli hindu in Myanmar sono i cosiddetti “indiani birmani”, un termine attraverso il quale si indicano gli antenati delle persone che dall’India e dai Paesi limitrofi emigrarono in Birmania a partire dall’inizio del dominio britannico (metà del XIX secolo) fino alla separazione della Birmania britannica dall’India britannica (1937). Dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, il Partito del Programma Socialista della Birmania sotto Ne Win (Presidente del Consiglio rivoluzionario birmano e Primo ministro del Governo rivoluzionario dal 1962 al 1974 e Presidente della Socialista Unione di Birmania dal 1974 al 1981), tra il 1963 e il 1967, ha adottato politiche xenofobe ed espulso dal Paese circa 300.000 persone di etnia indiana (di religione hindu e buddhista) e circa 100.000 persone con discendenza cinese. 

Per avere un’idea della portata delle persecuzioni di quegli anni basta consultare i dati ufficiali dei censimenti del 1931 e del 1973: in questo lasso di tempo si assiste a un decremento della popolazione hindu del 79,7%. È solo dagli anni ‘90 che si assiste a un miglioramento dell’accettazione delle persone di etnia hindu (e altre minoranze etnico-religiose) all’interno della società birmana. Ciononostante, episodi di intolleranza nei confronti di questo gruppo etnico-religioso si riscontrano ancora negli ultimi anni. Tristemente noto è stato il caso del cosiddetto Massacro di Kha Maung Seik (25 agosto 2017), durante il quale circa 99 persone hindu sono state uccise in seguito a un attacco condotto dall’Esercito della salvezza Arakan rohingya (Arsa).

ISLAM

L’Islam, principalmente di orientamento sunnita, secondo i dati del censimento del 2016, è praticato da circa il 4,3% della popolazione. La minoranza musulmana da lungo tempo è bersaglio di persecuzioni di stampo etnico-religioso che molti governi, di diverso “colore”, hanno protratto fin dalla costituzione dello Stato indipendente. A soffrire di questa situazione è soprattutto la popolazione rohingya, un gruppo etnico a maggioranza musulmana che oggi conta circa 800.000 persone concentrate prevalentemente (per l’80%) nello stato del Rakhine. 

Con l’indipendenza dall’Impero britannico, la Costituzione del 1948 concedeva la cittadinanza birmana sia ai rohingya che ai musulmani i cui antenati provenivano dall’India e dal Bangladesh. Poi, dopo il colpo di stato militare del 1962 il loro status fu declassato attraverso il cosiddetto Emergency Immigration Act del 1974 che imponeva a tutti i cittadini una nuova carta d’identità (la Carta di registrazione nazionale), basata sulla etnicità e dalla quale i rohingya furono esclusi e di conseguenza fu loro assegnata la Carta di

registrazione stranieri. Questo avvenne nonostante la nuova versione della Costituzione del 1974 descrivesse come illegale qualsiasi tipo di strumentalizzazione religiosa. La situazione peggiorò ulteriormente con il Citizenship Act del 1982 che stabiliva che chiunque volesse ottenere la cittadinanza doveva appartenere a una delle 135 “etnie nazionali” riconosciute dalla Costituzione o dimostrare che i propri antenati si fossero insediati nel Paese prima del 1823. Data la mancanza di documentazione per soddisfare quest’ultimo requisito, alla maggior parte dei rohingya non fu concessa la cittadinanza e divennero, di fatto, apolidi. Da allora i governi che si sono susseguiti hanno messo in atto politiche discriminatorie nei confronti dei rohingya e della popolazione musulmana in generale. Dato il loro status di “non cittadini”, ai rohingya non è garantita l’istruzione, l’accesso al mercato lavoro o ai servizi sociali di base. Perfino il diritto al matrimonio è di fatto ostacolato, dato che per sposarsi devono richiedere, attraverso una procedura che può richiedere anni, una serie di autorizzazioni prima di ottenere un “permesso di matrimonio”. 

Ma le persecuzioni contro i rohingya e i musulmani vanno anche oltre. Nel 2001 dei monaci buddhisti diffondono nella cittadina di Taungoo (divisione di Pegu) degli opuscoli anti-musulmani fra la popolazione (uno dei più diffusi ha come titolo La paura di perdere la propria razza), provocandone la reazione, che porta alla uccisione di circa 200 musulmani, la distruzione di 11 moschee e l’incendio di oltre 400 case. Dal 2012 al 2018 sono state accertate persecuzioni a danno dei rohingya nello stato del Rakhine perpetrate dall’esercito, dalle milizie di polizia, dalla popolazione buddhista nonché dalle autorità centrali e locali. Una missione di accertamento dei fatti incaricata dalle Nazioni Unite ha trovato prove sufficienti per richiedere l’indagine di alti funzionari militari per crimini contro l’umanità e genocidio contro i musulmani di etnia rohingya. Il rapporto finale rilasciato a settembre 2019 rilevava che i 600.000 rohingya rimasti nello Stato del Rakhine erano ancora l’obiettivo di una campagna governativa per sradicare la loro identità e vivevano sotto la “minaccia di genocidio”. Il rapporto ha rilevato inoltre che le leggi, le politiche e le pratiche che sono alla base della persecuzione del governo nei confronti dei rohingya – e che servono come fattori causali per le uccisioni, gli stupri e gli stupri di gruppo, la tortura e lo sfollamento forzato da parte delle forze armate e di altre autorità governative – erano ancora in atto. In seguito a tali accertamenti, l’11 novembre 2019 il Gambia si è rivolto alla Corte di giustizia internazionale sostenendo che Myanmar avesse violato gli obblighi disposti dalla Convenzione sul genocidio del 1948 chiedendo che venissero adottate delle “misure provvisorie” per prevenire ogni atto che potesse equivalere o contribuire al reato di genocidio contro i rohingya e proteggere la comunità in attesa della sentenza. Durante le udienze pubbliche, tenutesi all’Aja dal 10 al 12 dicembre 2019 – la delegazione di Myanmar, guidata da Aung San Suu Kyi, consigliera di stato e capo di stato di fatto, ha respinto le accuse di genocidio.

IL COLPO DI STATO

Il 24 marzo 2021 il Consiglio Onu ha adottato per consenso una risoluzione sulle violazioni dei diritti umani in corso in Myanmar dal colpo di stato militare del 1° febbraio scorso. La risoluzione ha rinnovato il mandato di Tom Andrews in qualità di Relatore speciale delle Nazioni Unite sul Myanmar, incaricandolo insieme all’Ufficio di Michelle Bachelet – l’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani – di svolgere uno stretto monitoraggio su quanto sta accadendo nel Paese. La risoluzione, basata sul rapporto presentato nel settembre 2019 dalla Missione di accertamento dei fatti, ha raccomandato inoltre alle aziende presenti in Myanmar o che hanno legami di affari col Paese di non svolgere alcuna attività economica che possa favorire l’esercito o le aziende da esso possedute o controllate.

Fondata nel 2000 da ex prigionieri politici che vivevano in esilio al confine tra Thailandia e Birmania allo scopo di fare advocacy per il rilascio dei prigionieri politici rimasti e assistere gli ex prigionieri nella loro nuova vita da uomini e donne liberi, l’Associazione per l‘assistenza ai prigionieri politici in Myanmar riferisce che, al 14 aprile:

– sono oltre tremila le persone arrestate, accusate o condannate durante le proteste;

– è stato emesso un mandato d’arresto per altre 756 persone;

– sono 715 le persone uccise negli scontri con la polizia e l’esercito;

– sono 66 le persone condannate.

Michele Lipori

Michele Lipori

Abbonati ora!

Solo 4 € al mese, tutta Confronti
Novità

Seguici sui social

Articoli correlati

Scrivici
Send via WhatsApp