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Empatia buona e empatia cattiva

by Gianluca Barbanotti

di Gianluca Barbanotti. Segretario esecutivo della Diaconia valdese.

La parola “empatia” è fra le parole positive più utilizzate in questi ultimi anni, soprattutto in ambito sociale, sanitario ed assistenziale. Non è, tuttavia, da escludere, che fra le cause del disagio che porta molti operatori al burnout, cioè ad uno stato di esaurimento psichico ed emotivo, ci possa essere un malinteso uso del concetto legato a questa parola. Nelle scuole per infermieri, per educatori, per operatori socio-assistenziali si propone spesso la relazione empatica come modello al quale ispirarsi per orientare correttamente la propria azione professionale.

La traduzione
pop di questo concetto è che l’operatore deve coinvolgersi nell’altro, immedesimarsi nella sua situazione, entrare nella sofferenza dell’altro come se fosse la sua: solo mettersi nei panni dell’altro, abbandonare i propri panni per indossare quelli degli altri potrà consentire di stabilire una corretta relazione di aiuto con l’altro. Di questo tema si occupò già nel lontano 1915 Edith Stein, magistralmente  sintetizzata da Annarosa Buttarelli nel contributo in Prendersi cura delle parole (Aut Aut, dicembre 2020, pp.98-105),  facendo emergere i rischi della falsa empatia, che nella relazione con l’altro porta all’interpretazione più che allo scambio

Di fronte ad un paziente che sta per subire un’amputazione, l’operatore può farsi  la domanda: come mi sentirei se dovessi essere io a subire l’amputazione? Questa domanda, figlia dell’istanza di immedesimazione, porta ad interpretare quello che l’altro sente, non certo ad avere uno scambio con lui. L’azione dell’operatore, dettata da questa sua interpretazione della sofferenza e del disagio altrui, apre due ordini di problemi: l’esperienza è sempre e solo dell’operatore, senza nessun riconoscimento dell’altro, consolidando il culto dell’identità e rinforzando il proprio senso di onnipotenza; l’altra criticità è proprio il burnout, quando questo tipo di immedesimazione comporta la morte di parti di sé ogniqualvolta che c’è un distacco dall’altro, evento all’ordine del giorno nelle professioni di aiuto. Se mi immedesimo nel paziente che poi viene a mancare per conclusione del percorso, per scelta, per abbandono,  brucio rapidamente la mia capacità di essere vicino alle persone. 

La buona empatia non è un’interpretazione dell’altro, ma uno scambio che riconosce all’interlocutore la dignità di essere altro, di essere sconosciuto e quindi richiede lo sforzo dell’ascolto.  Cercare di ascoltare, o forse meglio, “sentire” l’altro nella sua differenza da sé senza proiettare il proprio sentire sull’altro, modellando la propria crescita nell’ascolto senziente delle esperienze degli altri. Nella situazione richiamata la domanda dell’operatore è: quali sono i sentimenti che accompagneranno questo paziente nell’affrontare l’amputazione? Questo vuol dire aprire un percorso di ascolto, anche e soprattutto emotivo, che non impone all’altro le proprie paure e i propri vissuti,  ma che invece contribuisce a costruire, allargare, implementare le sensibilità di entrambi i soggetti. L’empatia per dirla con Stein è «esperienza di una coscienza altra da noi…».

Da un soggetto, l’operatore, si passa a due soggetti: due soggetti che sono tali nella misura in cui si rendono conto del differente vissuto altrui. Se l’obiettivo è risentire una comunanza qualitativa dell’esperienza (per esempio la paura dell’handicap conseguente alla amputazione) è necessario avere sempre presente la differenza fra colui che la vive in modo originario  e, l’operatore, che ne è sensibilizzato in seconda battuta. L’empatia è l’esperienza dell’essere per differenze e non per identità. Una corretta interpretazione dell’empatia dovrebbe consentire di avere accesso all’esperienza del “sentire” senza essere invasi dal patire altrui; rinunciare ad un autolesionistico senso di onnipotenza per accedere ad un passivo e sano ascolto emotivo.

Un interessante episodio che rappresenta simmetricamente la buona e la cattiva empatia lo ritroviamo quando  un lebbroso, persona emarginate e nel bisogno,  viene incontro a Gesù e gli  chiede di essere guarito (Marco 1.40-45). Gesù non va a cercarlo, stanarlo nel suo bisogno per poterlo aiutare, ma si mette in ascolto dell’altro e il testo specifica che è “mosso a pietà”. Si smuovono le emozioni e con loro una relazione profonda, ma quello che ci aiuta a capire la “buona empatia” è la sequenza delle azioni di Gesù: stese la mano, lo toccò…,  disse…,  lo ammonì… , lo congedò. 

Gesù “sente” la sofferenza del lebbroso, la sente con tutto i suoi sensi, come se ne mangiasse le interiora se vogliamo dar credito all’etimologia del verbo utilizzato: la sofferenza diventa una parte di sé, ma lui non diventa il lebbroso, non si identifica con il lebbroso, sente la sofferenza, che è solo del lebbroso, non può essere la sua,  tanto è vero che deve stendere la mano, allungarsi, misurare la distanza che c’è fra lui e il lebbroso, e deve toccarlo. Non avrebbe avuto bisogno di avvicinarsi a lui, non avrebbe avuto necessità di toccarlo se ci fosse stata piena immedesimazione. Invece, la necessità di misurare la distanza e di instaurare un rapporto, una relazione, gli consentono di parlare e questo produce il miracolo del cambiamento. Il riconoscimento della distanza fra sé e l’altro è la vera empatia che consente di riconoscere l’altro e di non sopraffarlo.

L’apogeo di questo rapporto che riconosce l’autonomia dell’altro e non se ne appropria arriva con il congedo: la vita di entrambi deve continuare, ognuno per la propria strada, ognuno avendo imparato qualcosa dell’altro.  L’ironia di questo racconto è nell’inversione finale quando il lebbroso diventa l’esempio della “cattiva empatia”: malgrado il divieto di Gesù lui parte a diffondere l’Evangelo!  Il lebbroso pensa di sapere quello che Gesù vuole e lo pratica, pensa che Gesù voglia che si predichi e lui predica, ma lui non ha ascoltato Gesù che gli aveva detto esplicitamente di tacere: ha pensato che lui e Gesù ormai erano la stessa cosa e l’ascolto era superfluo e ha deciso lui anche per l’altro. Ascoltare, sentire anche emotivamente l’altro, vuol dire riconoscere la dignità dell’interlocutore e con questo aprirsi al mondo dei suoi diritti.

© Evan McDougall /CopyLeft

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Gianluca Barbanotti

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