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Giovani frequenze. La storia della prima radio indipendente in Palestina

by Marzia Coronati

di Marzia Coronati. Giornalista Rai RadioTre.

Quanto è garantita la libertà di stampa in Palestina? In questi giorni in cui il conflitto israelo-palestinese è tornato drammaticamente a riaccendersi ad alcuni giornalisti sono stati bloccati gli account social, mentre in Italia alcuni quotidiani e media mainstream hanno dato scarso risalto alla vicenda. Da anni associazioni e cooperative operano per garantire la libertà di espressione, sostenendo progetti di comunicazione nei territori occupati e facendo pressione affinché le potenze occidentali non dimentichino quello che accade in quell’area tormentata. Molto è stato fatto, ma la strada è ancora lunga.

Chiunque è stato anche solo una volta in Israele lo sa bene: all’aeroporto di Tel Aviv bisogna armarsi di pazienza, perché è quasi certo che il proprio bagaglio sarà perquisito da cima a fondo, sia all’andata che al ritorno.  Donne e uomini aspettano per ore, sconsolati di fronte alla loro valigia messa sotto sopra, intenti a rinfilare alla rinfusa calzini, spazzole e dopobarba. I turisti si lamentano per il sequestro di un sacchetto di zaatar o rispondono perplessi alle domande inquisitorie sul perché dell’acquisto di una kefiah, mentre qualche giornalista rivendica a gran voce i propri diritti, battendo i piedi per farsi restituire il laptop sottratto da qualche militare dal volto di pietra. Benvenuti in Israele, benvenuti in Palestina.

Francesco Diasio ha lavorato nei territori occupati per anni. Dopo le prime estenuanti esperienze all’aeroporto israeliano ha optato per un altro percorso. Volava dall’Italia fino ad Amman, in Giordania, per poi viaggiare su una macchina a noleggio per circa un’ora e mezza, di seguito una manciata di minuti di taxi, un breve passaggio su una navetta sino alla stazione di frontiera e poi ancora un’altra navetta, questa volta israeliana, fino a Tel Aviv. Chi frequenta e lavora in Israele e Palestina impara presto a fare i conti con una realtà contorta, fragile, frammentata, su cui aleggia un eterno sentimento di impotenza, misto a fatalismo e rassegnazione. Inshallah, come và và, siamo nelle mani di Dio.

Diasio è esperto nel rafforzamento dei media in aree di conflitto, lì dove la libertà di espressione è minacciata o scarsamente garantita. Le sue relazioni con la Palestina hanno inizio nei primi anni del nuovo millennio, dopo avere partecipato a un progetto in Giordania finalizzato alla costruzione di un media center, da quell’esperienza, a cui parteciparono anche alcune persone palestinesi, nacque la volontà di provare a costruire una realtà di informazione multimediale nuova, libera, indipendente anche nei territori palestinesi, un obiettivo ambizioso, nel paese che nella più recente classifica di Reporters without borders si aggiudica il 132° posto, in una lista di 180 nazioni.

La sfida ha inizio nel 2003. Amisnet ‒ l’agenzia di informazione multimediale con sede a Roma di cui Diasio era presidente ‒ e il Servizio Civile Internazionale siglano un progetto di tre anni, mirato alla creazione di un grande media center dotato di studi radio e video e di un gruppo di produzione di prodotti giornalistici online, con sede a Hebron. «All’inizio non è stato facile, sapevamo che per fare funzionare veramente il progetto dovevamo trovare una forte collaborazione con i partner locali e comprare anche in loco le attrezzature e il materiale per mettere su il centro, ma la Palestina in quegli anni attraversava la Seconda Intifada e ogni operazione era complessa, soprattutto a Hebron». Per spiegare come si vive a Hebron, Diasio mi porta ad immaginare la città di Roma con una ipotetica San Pietro occupata dalle guardie svizzere. Il centro storico della città della Cisgiordania infatti è ormai completamente deserto, assediato dall’esercito israeliano. Chi c’è stato non potrà mai dimenticare il mercato: un gomitolo di stradine protette da un lungo coperchio di rete, che sfiora le teste dei passanti. I coloni che abitano nei palazzi di quella zona lanciano continuamente immondizia dai balconi e il popolo è stato costretto a porvi rimedio.

Nonostante le numerose difficoltà ‒ logistiche, politiche, diplomatiche ‒ il media center di Hebron prenderà forma, grazie alla strumentazione acquistata per lo più a Betlemme, e nel 2006 si parte con una seconda avventura, questa volta a Birzeit, a 25 chilometri a nord da Gerusalemme. Ora l’obiettivo è ancora più alto: costruire una vera e propria emittente, con tanto di acquisizione della frequenza. Si chiamerà Radio Shabab e aprirà i suoi microfoni nel 2008, grazie a una collaborazione tra Amisnet, la onlus Cospe e l’università di Birzeit, un progetto finanziato dall’Unione Europea e da alcuni enti locali destinato ad avere molta fortuna.

Anche qui l’inizio non è stato semplice, soprattutto per l’ottenimento della frequenza, in un periodo in cui il quadro legislativo a riguardo non era ben chiaro, ma dopo qualche  mese di gincana burocratica si è raggiunto il primo traguardo, Shabab ottiene la frequenza, spianando la strada anche a nuovi progetti radiofonici che nasceranno negli anni seguenti. Ma torniamo a Radio Shabab, l’emittente dei giovani. Si costituisce una vivace redazione, composta da ragazzi e ragazze della Palestinian Youth Union (PYU), e nel 2008 si inizia a trasmettere, coprendo un raggio di circa 40 Km. È il primo esperimento di radio libera in Palestina, la prima emittente comunitaria ufficialmente registrata nei Territori Palestinesi.

Si parla dei problemi che affliggono la loro società, di disoccupazione, di povertà, del diritto all’abitare, c’è una trasmissione dedicata ai prigionieri politici, molto seguita da dentro le carceri; si alternano semplici e utili informazioni di servizio a notizie di sport e musica e ben presto lo studio di Shabab diventa un punto di riferimento e una casa in cui incontrarsi, confrontarsi, passare del tempo insieme; non solo, costituirà anche una vera e propria palestra per redattrici e redattori e oggi decine di firme importanti del giornalismo palestinese hanno iniziato la loro carriera proprio lì, nello studio radiofonico di Birzeit. «Per la prima volta si poteva fare informazione libera» racconta Gianni Toma, del Cospe «è successo solo un paio di volte che si perdesse il segnale, probabilmente a causa di qualche intrusione israeliana, ma per tutti gli anni in cui Shabab ha trasmesso non ci sono state censure». Dietro il successo di questo intervento di cooperazione internazionale, riflette Toma, hanno giocato due importanti fattori: l’avere stabilito relazioni forti con i partner locali e avere fatto pressione sui governi delle potenze occidentali affinché si occupassero della situazione dei territori occupati. 

Ma il progetto ‒ e il denaro ‒ internazionale, ha una data di fine. Nel 2010 Radio Shabab rischia di non godere più di nessun finanziamento, ma ha un bene prezioso tra le mani: la frequenza. Alcune realtà commerciali si affacciano alla porta della radio con l’intenzione di comprare lo spazio nell’etere, ma Shabab agisce con cautela, caparbiamente intenzionata a preservare la libertà di espressione e l’indipendenza che la contraddistingue. La soluzione appare poco più tardi, quando Shabab riceve un’offerta da una squadra di giornalisti locali affermati e affidabili. Il patto siglato è questo: la radio cede la frequenza a una nuova realtà editoriale, cambia nome e sede ma il suo più importante partner, il PYU, rimane nel consiglio di amministrazione e si riserva la possibilità di riacquisire la frequenza nel caso alcuni standard di libertà e qualità dell’informazione non vengano rispettati. Nel 2014 nasce Radio 24 FM, con sede a Ramallah, una sorta di nostra Radio Popolare, come l’ha definita Gianni Toma. Oggi la radio vive di abbonamenti, di pubblicità e di qualche fondo pubblico legato a singoli progetti editoriali. Il dato importante è che il PYU ha ancora un ruolo decisionale importante.

Attualmente Radio 24 FM è una delle emittenti più seguite del Paese e ora che le sue spalle sono sufficientemente larghe il Cospe si è sfilato dal progetto (la cooperazione internazionale sensata funziona così), ma la onlus italiana non ha smesso di operare nei territori palestinesi e di scommettere nello strumento radio, che continua a considerare un ottimo mezzo di informazione indipendente e di mobilitazione cittadina. Oggi i suoi sforzi sono concentrati in una nuova avventura radiofonica, si chiama Nis’ha ed è una emittente realizzata da sole donne con sede a Ramallah. Ma questa è un’altra storia.

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Marzia Coronati

Giornalista Rai RadioTre

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