di Elena Valdameri. ricercatrice presso ETH Zürich e storica dell’India moderna
(Intervista a cura di Asia Leofreddi)
L’India è il secondo paese al mondo più duramente colpito dal Covid-19. Nelle ultime settimane i casi hanno raggiunto quota 400.000 e centinaia di migliaia di morti. Sulla violenza della pandemia hanno pesato un sistema sanitario fragile, le forti disuguaglianze economiche e la retorica nazionalista dell’attuale governo Modi che, tuttavia, ha subito una forte sconfitta alle ultime elezioni locali. Ne abbiamo parlato con Elena Valdameri, ricercatrice presso ETH Zürich e storica dell’India moderna.
Quali sono le principali fragilità del sistema sanitario indiano e che ruolo hanno giocato nel mancato contrasto all’emergenza?
In India, non esiste un vero e proprio sistema sanitario pubblico. O meglio, non ha mai funzionato. É inadeguato e la distribuzione delle strutture sanitarie sul territorio è da sempre molto squilibrata. Ad aggravare la situazione è il persistere di una fortissima sperequazione tra numero di medici e di pazienti, circa un medico ogni 10.000 persone, il che dà la misura di quanto sia difficile per la sanità raggiungere tutti. A risentirne sono principalmente le zone rurali, dotate di un numero molto inferiore di strutture sanitarie e dove i medici, arrivando da località minori, sono molto meno preparati, con livelli d’istruzione più bassi e scarsità di tecnologie mediche. Come è facile immaginare, a compensare questo sistema sanitario pubblico ci sono le strutture sanitarie private, le quali, da una parte, hanno gli stessi limiti delle strutture pubbliche, visto che sono concentrate principalmente nelle città; dall’altra, sono generalmente molto costose per le classi sociali medio basse e inaffrontabili per la popolazione che vive al di sotto della linea di povertà, che secondo le stime si aggira oggi intorno al 60% della popolazione.
Dal suo discorso sembra di capire che i problemi non sono emersi oggi, ma sono il prodotto di una debolezza di lungo termine.
Si, in India la sanità pubblica è sempre stata sottofinanziata, a favore di altre spese come per esempio quelle militari. Secondo la Costituzione, è compito dei singoli stati dell’Unione occuparsi della sanità, i quali generalmente mettono a disposizione delle fette molto piccole dei loro budget. Questo tipo di approccio ha radici storiche. Dall’inizio dell’indipendenza indiana, infatti, vediamo delle continuità in termini di politiche sociali. La costituzione indiana, molto progressista nei suoi ideali e nella sua concezione della libertà – intesa sia come libertà dalla dominazione coloniale che come libertà dalla povertà –, non è riuscita a incarnare nei propri principi questi ideali. I diritti politici e civili, infatti, sono considerati diritti per eccellenza e rientrano tra i diritti fondamentali dell’individuo; mentre i diritti economici e sociali sono condizionali e legati all’esistenza delle condizioni economiche per realizzarli. Anche il Congresso nazionale indiano (ndr partito politico, oggi all’opposizione, guidato da Sonia Gandhi), che si è molto spesso dipinto come partito socialista, in realtà non ha mai veramente premuto per creare uno stato socialdemocratico, né ha mai perseguito la volontà politica di creare un sistema di welfare inclusivo, tant’è che i diritti economici e sociali vanno a toccare solo alcune fasce della popolazione, senza mai diventare parte dello status di cittadino.
Ha detto che dal punto di vista sanitario le colpe sono di lunga durata. Per quanto riguarda il governo Modi, invece, quali sono le sue responsabilità?
Per la sanità, qualcosa dal governo di Modi è stato fatto. Sono stati potenziati i letti con i ventilatori e le terapie intensive. Tuttavia, a causa della cattiva gestione della pandemia, sia a livello di prevenzione che di narrazione pubblica, queste misure si sono rivelate tragicamente insufficienti, con il risultato che è davanti ai nostri occhi. Un esempio è la questione della scarsità di ossigeno. Il governo centrale ha ritardato di mesi cruciali l’avvio delle procedure per assegnare la costruzione di centrali di ossigeno medicale, e a loro volta gli stati dell’Unione non hanno commissionato centrali e non hanno convertito per tempo le centrali di ossigeno ad uso industriali per uso medicale. La scarsità di ossigeno, dunque, ha fatto schizzare il suo prezzo sul mercato nero, dove qualcuno più abbiente è riuscito ad acquistarlo per 1.300 $, mentre la maggioranza della popolazione ne è rimasta priva.
Ha fatto riferimento al ruolo della narrazione pubblica e mediatica nella mala gestione della pandemia. Cosa intende?
Durante questi anni abbiamo imparato a conoscere Modi e sappiamo quanto la narrazione sia importante per questo uomo politico che ama apparire come uomo forte, decisionista, che sa risolvere i problemi. A partire da febbraio, il governo, utilizzando una retorica nazionalista trionfante, ha diffuso la credenza che la lotta contro il virus fosse finita e vinta, e che quindi si potesse abbassare la guardia. A marzo, quando ormai la seconda ondata era iniziata, sia Modi sia i capi ministri degli stati guidati dal BJP, hanno pubblicizzato sulle pagine dei quotidiani locali e nazionali il Kumbh mela (ndr il pellegrinaggio Hindu di massa, che dura 40 giorni, a cui s’imputa l’impennata di contagi) definendolo sicuro. Solo il 17 aprile, cioè fuori tempo massimo, Modi ha suggerito che la partecipazione all’ultimo bagno rituale dovesse ritenersi simbolica per contenere la pandemia, tuttavia 25 milioni di fedeli hanno partecipato al Kumbh Mela con conseguenze drammatiche. I media italiani hanno la tendenza a raffigurare la popolazione indiana come ultrareligiosa e intrinsecamente irrazionale. Eppure, non tutti gli hindu che hanno partecipato al Kumbh Mela sono fanatici. Molti sono devoti che si sono semplicemente fidati della propria classe dirigente, un po’ come abbiamo fatto noi l’estate scorsa andando in vacanza.
Come abbiamo visto anche su Confronti, una caratteristica del governo Modi è quella di fare un uso politico e nazionalista della religione. Difficile immaginare che la pubblicizzazione del Kumbh Mela non fosse legata a questo tipo di approccio. Che ruolo ha giocato la religione nella gestione della pandemia?
Innanzitutto, la narrazione di Modi ha fatto largo uso di riferimenti culturali del mondo religioso hindu, paragonando per esempio la lotta contro il virus alla guerra del Mahābhārata [uno dei più grandi poemi epici indiani], strizzando quindi l’occhio alle forze hindutva che sostengono il governo centrale. In secondo luogo, il governo ha adottato due pesi e due misure nella rappresentazione pubblica della comunità induista e di quella musulmana durante la pandemia. L’hindutva, che è l’ideologia su cui si basa il partito di Modi, ruota intorno a una forte islamofobia e dipinge i cittadini hindu come unici veri cittadini. La pandemia è stata l’occasione per affermare questo concetto. Se, da una parte, il governo si è fatto promotore del Kumbh mela, dall’altra, durante la prima ondata, ha condotto una forte campagna di odio verso la comunità musulmana, ritenuta responsabile della diffusione del virus in seguito a un convegno tenuto a Delhi dalla Tabligh di Jamaat, congregazione missionaria islamica. Quella fu occasione di una vera recrudescenza islamofobica, in cui, da una parte, Modi presentava questa battaglia contro il coronavirus come una sorta di opus pacis che potesse unificare la nazione; dall’altra, ministri del BJP condannavano questo convegno definendolo un crimine talebano e parlando addirittura di corona jihad, con violente ripercussioni per la comunità musulmana. È importante, infine, tenere conto di un altro aspetto di criticità della società indiana che non si può escludere che stia avendo un peso sulla gestione dell’emergenza, cioè la permanenza delle discriminazioni castali che esistono nei villaggi. Esistono anche nelle città, ma sono visibili e strutturali soprattutto nelle zone rurali. Per esempio, sappiamo che ci sono organizzazioni della società civile che si stanno impegnando molto nella lotta contro il virus. Tuttavia, bisogna chiedersi se sono a base castale e se e quanto offrono il proprio supporto a prescindere dalle appartenenze di casta. Queste sono cose che capiremo solamente in futuro, ma che lo storico guarda con attenzione perché sa che durante altre emergenze del passato, mentre alcune organizzazioni erano cast-crossing, altre agivano esclusivamente sulla base della casta e di religione.
Tra aprile e maggio in India si sono svolte elezioni locali, e su cinque stati (ndr Assam, Bengala Occidentale, Kerala, Tamil Nadu e territorio di Puducherry) il BJP, il partito di Modi, è stato sconfitto in tre (ndr Tamil Nadu, Kerala, Bengal occidentale). Questa pandemia ha avuto un peso sul suo consenso oppure no?
Francamente, non credo. O meglio, la gestione della pandemia non può essere ritenuta l’unica spiegazione. Se, per esempio, consideriamo il Kerala e il Tamil Nadu sono due stati in cui BJP ha perso, ma in cui da sempre è praticamente inesistente. Lo stato che invece bisogna guardare con più attenzione è il Bengala occidentale. In quest’ultimo la campagna elettorale è stata virulenta, sia dal punto di vista politico sia letterale. Le elezioni si sono svolte in otto fasi e sono state le più lunghe nella storia elettorale indiana. Il BJP sapeva di essere in una posizione di svantaggio in uno stato che ha sempre tenuto a debita distanza l’hindutva. Così, consapevole di questa debolezza, e nonostante la recrudescenza del virus, tutta la leadership del BJP si è concentrata su questo stato orientale, organizzando comizi che hanno visto il radunarsi di centinaia e migliaia di cittadini, in cui Modi e il ministro degli affari interni, Amit Shah, si presentavano senza mascherina. Solo quando già vi erano migliaia di morti al giorno e le strutture sanitarie erano vicine al collasso, Modi ha cancellato i raduni elettorali. Quindi possiamo dire che in questo stato, specialmente nelle ultime tornate elettorali, la mala gestione della pandemia può avere avuto parte della responsabilità per i risultati. Tuttavia, non è sufficiente. Nel Bengala occidentale, il partito che ha vinto è il Trinamool Congress guidato da Mamata Banerjee, donna carismatica della politica indiana. Il suo governo ha attuato una serie di misure di welfare, a favore degli strati sociali più svantaggiati, delle donne, dei disoccupati, che in realtà pare abbaiano avuto un peso maggiore nella sconfitta di Modi rispetto alla pandemia. Inoltre, anche a livello retorico, Mamata Banerjee ha cercato di contrastare la retorica modiana, basando la sua campagna elettorale sulla narrazione di una cultura bengalese ponte tra hindu e musulmani. Che sia vero o meno non è importante. A livello politico, infatti, l’efficacia è più importante della coerenza. La Banerjee, in effetti, è stata in grado di costruire una narrazione da opporre all’induismo politico. Questo dà speranza, mostrando che Modi non è invincibile, ma può essere sconfitto da questi forti leader regionali, in grado di rimediare alle mancanze del Congresso, sconfiggendo il BJP sulla base delle politiche e, in questo caso forse più importante, della narrazione pubblica.
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Elena Valdameri
Ricercatrice presso ETH Zürich e storica dell’India moderna