di Luigi Sandri. Redazione Confronti
Il Consiglio ecumenico, le Chiese della Città santa, il patriarca latino attuale di Gerusalemme, Pizzaballa, e l’emerito, Sabbah, e poi il papa, “preoccupatissimi” per quanto stava accadendo là, hanno commentato quei drammatici eventi con denunce, analisi e speranze variamente motivate ed espresse tra chi sta qui e chi è laggiù.
La drammatica situazione a Gerusalemme e dintorni ha profondissimamente preoccupato i leaders delle Chiese della Città santa e il papa della Chiesa romana che, dunque, hanno preso posizioni – articolate – su un conflitto, quello israelo-palestinese, che dal 1948 spesso incombe nelle loro agende.
CEC. Solidarietà alle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah
Il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), attraverso il suo Ecumenical Accompaniment Programme in Israel and Palestine (Eappi), dai primi giorni di maggio, intensificando quanto sta facendo già dal 2008, ha portato solidarietà, e riaffermato il supporto giuridico, alle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah le cui proprietà erano minacciate da gruppi di coloni a Gerusalemme-est. Peter Prove, direttore degli Affari internazionale del Cec, ha rilevato: “Come l’Ufficio dell’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani ha notato, le leggi alle quali i coloni si richiamano sono mal fondate e attuate in modo discriminatorio, a detrimento dei palestinesi che in molti casi hanno vissuto in quelle case da generazioni». Stesso concetto ha ribadito il segretario generale ad interim del Cec, Ioan Sauca, precisando però che «la risposta appropriata ad una situazione ingiusta non deve essere più violenza», e ribadendo l’appoggio alla Two-State solution: salvaguardia di Israele e creazione dello Stato di Palestina..
Patriarcato latino: “Azioni provocatorie”
«Siamo profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e di questa come Città della Pace». Facendo sua questa affermazione delle varie Chiese e comunità cristiane di Gerusalemme – ortodosse, cattoliche, antiche-orientali, anglicane e luterane: nell’insieme, circa diecimila fedeli – il patriarcato latino, dal 2020 guidato dal francescano monsignor Pierbattista Pizzaballa, il 9 maggio ha dichiarato: «La violenza usata contro i fedeli mina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente». In quanto alla vicenda di Sheikh Jarrah, l’ha definita «un’altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. Essa non riguarda una controversia immobiliare tra privati. È piuttosto un tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa».
E ancora: «Di particolare significato è anche il diritto di accesso ai Luoghi Santi. Ai fedeli palestinesi è stato negato l’accesso alla moschea di Al Aqsa durante questo mese di Ramadan. Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l’anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri».
«La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque. Questa è una città sacra alle tre religioni monoteiste e, sulla base del diritto internazionale e delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, anche una città in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l’uguaglianza e la pace. Chiediamo pertanto un assoluto rispetto dello status quo di tutti i Luoghi Santi, compreso il complesso della moschea di Al-Aqsa. L’autorità che controlla la città dovrebbe proteggere il carattere speciale di Gerusalemme».
E infine: «La nostra Chiesa è stata chiara sul fatto che la pace richiede giustizia. Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette. Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme».
Le parole del papa. La “impossibile” mediazione vaticana
Francesco, pubblicamente, fino al 21 maggio sul problema è intervenuto tre volte, due al Regina coeli domenicale. Il 9 maggio: «Seguo con particolare preoccupazione gli eventi che stanno accadendo a Gerusalemme. Prego affinché essa sia luogo di incontro e non di scontri violenti, luogo di preghiera e di pace. Invito tutti a cercare soluzioni condivise affinché l’identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa sia rispettata e possa prevalere la fratellanza. La violenza genera solo violenza. Basta con gli scontri».
E il 16: «Seguo con grandissima preoccupazione quello che sta avvenendo in Terra Santa. In questi giorni, violenti scontri armati tra la Striscia di Gaza e Israele hanno preso il sopravvento, e rischiano di degenerare in una spirale di morte e distruzione. Numerose persone sono rimaste ferite, e tanti innocenti sono morti. Tra di loro ci sono anche i bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere».
«Inoltre, il crescendo di odio e di violenza che sta coinvolgendo varie città in Israele è una ferita grave alla fraternità e alla convivenza pacifica tra i cittadini, che sarà difficile da rimarginare se non ci si apre subito al dialogo. Mi chiedo: l’odio e la vendetta dove porteranno? Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro? In nome di Dio… faccio appello alla calma e, a chi ne ha responsabilità, di far cessare il frastuono delle armi e di percorrere le vie della pace, anche con l’aiuto della Comunità internazionale. Preghiamo incessantemente affinché israeliani e palestinesi possano trovare la strada del dialogo e del perdono… aprendosi ad una convivenza tra fratelli. Preghiamo per le vittime, in particolare per i bambini; preghiamo per la pace la Regina della pace». E venerdì 21, dopo l’annuncio del cessate-il-fuoco: «Ringrazio Dio per la decisione di fermare gli scontri armati e auspico che si percorrano le vie del dialogo e della pace. Domani sera, gli Ordinari cattolici di Terra Santa celebreranno insieme ai loro fedeli la Veglia di Pentecoste nella chiesa di Santo Stefano a Gerusalemme, implorando il dono della pace».
Ma, al di là di questi interventi, il papa, con contatti personali e vie diplomatiche aveva cercato di coinvolgere le Potenze in qualche modo coinvolte nell’incastro mediorientale, per far tacere le armi. Ha telefonato al presidente turco Recep Tayyip Erdogan; il 15 aveva ricevuto John Kerry, Inviato Speciale del presidente degli Stati Uniti d’America per il Clima (ma hanno parlato anche di Gerusalemme!); il 17 Mohammad Javad Zarif, ministro degli esteri dell’Iran.
Correvano voci che il Vaticano intendesse fare una sua mediazione per fermare il conflitto in atto. Ipotesi già il 19 maggio smentita dallo stesso segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin: «Non mi sembra ci siano le condizioni. Però certamente dobbiamo svolgere qualsiasi azione che possa aiutare prima di tutto a un cessate il fuoco, che si metta fine a questo annoso conflitto, che si possa arrivare a una risoluzione secondo la soluzione dei due Stati».
Sabbah: “La Comunità internazionale ha le mani sporche di sangue”
Nato da una famiglia cristiana araba nel 1933 a Nazareth – allora nella Palestina del Mandato britannico – Michel Sabbah nell’87 fu scelto da papa Wojtyla come patriarca latino di Gerusalemme (diverrà emerito nel 2008). Questa carica era stata “inventata” nel 1099 dai Crociati che, in quell’anno, sconfiggendo la Mezzaluna, avevano conquistato la Città santa e tolto il potere al patriarca greco che da sette secoli là era la massima autorità cristiana. Quando nel 1291 essi furono definitivamente battuti dai musulmani, quello di “Patriarca di Gerusalemme” rimase un puro titolo onorifico che i papi, di volta in volta, diedero a qualche prelato, mai stato laggiù. Fu Pio IX, nel 1847, quando la Città santa era sotto il controllo ottomano, a ristabilire effettivamente quel patriarcato: da allora, fino al 1987 a guidarlo furono sempre italiani: perciò la scelta di Wojtyla fu davvero innovativa.
Ora, il 15 maggio, Pax Christi Italia (il cui presidente è mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti) e don Nandino Capovilla, referente per essa della campagna “Ponti, non muri”, hanno organizzato un collegamento in streaming con Sabbah, definito Il patriarca del popolo in un docu-film su di lui prodotto da una palestinese. Dopo la proiezione, sono state poste al prelato molte domande. Riportiamo ampi stralci dell’intervista.
Mons. Sabbah, come valuta i fatti drammatici di questi giorni?
«Gli eventi di questi giorni non sono altro che il ripetersi di ciò che abbiamo già visto tante volte: in questa terra gli uomini stanno gettando semi di morte. Tutti sanno quello che è dovuto a Israele, e quello che è dovuto ai palestinesi. Tutti vedono lo Stato d’Israele prendere tutto, ma nessuno ha il coraggio di dire una parola di verità… Entrambi i popoli hanno bisogno di salvezza. I palestinesi hanno bisogno di essere salvati, ma lo stesso Israele ha bisogno di qualcuno che lo salvi per non vivere nella perenne insicurezza. C’è da salvare Israele. Ma per salvare Israele bisogna avere il coraggio di dirgli che si fermi, perché sta camminando sulla via della propria distruzione; e nessuno osa farlo».
Chi è responsabile di questa situazione così degenerata nei decenni, in una Palestina ancora occupata militarmente e colonizzata con insediamenti illegali?
«Israele vuole svuotare Gerusalemme dai suoi abitanti arabi, cristiani o musulmani, e ha provocato tutte le violenze attuali. Ma la maggior responsabilità è della Comunità internazionale, perché tutti i Paesi vedono e tutti gli Stati sanno ciò che sta dietro ai fatti che oggi insanguinano questa terra. Il maggior responsabile resta la Comunità internazionale che avrebbe il dovere di costringere Israele a concedere alla Palestina uno Stato. Anche nel suo non agire la Comunità internazionale è colpevole e ha le mani sporche di sangue per quanto accade oggi in Terra santa».
Quale potrebbe essere la soluzione migliore per questo lungo e sanguinoso conflitto?
«La soluzione normale, la più semplice, la migliore anche per Israele, sarebbe quella dei due Stati. I palestinesi hanno già riconosciuto Israele, ma soprattutto gli hanno già ceduto il 78% della loro terra, e domandano per loro solo il 22%. Eppure Israele continua a dire no ad uno Stato di Palestina. Ed è come se ripetesse: “Per voi, niente. Non esisterete mai come Stato. Rimarrete sottomessi al governo israeliano”. Questo significa assistere a quello che oggi tutto il mondo può vedere: aggressioni, demolizioni, uccisioni, espropri di case palestinesi. Oppure [altra ipotesi] si faccia un solo Stato, ma l’importante è comunque che tutti, palestinesi e israeliani, abbiano gli stessi diritti. Forse però non siamo pronti per la soluzione di uno Stato unico».
«C’è da salvare entrambi i popoli che abitano la Terra santa. Si tratta di salvare i due popoli. Entrambi. Non si può dire né ai palestinesi né agli israeliani che non hanno il diritto di esistere. Bisogna garantirlo ad entrambi… Decenni di violenza hanno portato la gente a crescere nella violenza. Gli israeliani usano la violenza più grande e i palestinesi rispondono con la violenza. Ma gli israeliani sono riusciti a far credere al mondo che i terroristi sono i palestinesi».
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Luigi Sandri
Redazione Confronti