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Senza barriere linguistiche

by Stefano Allievi

di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

La metà delle lingue esistenti potrebbe sparire nei prossimi cinquant’anni. Intanto la tecnologia sta facendo passi avanti per conservare e rivificare le lingue morenti, ma soprattutto per perfezionare i traduttori automatici e consentire così una comunicazione istantanea. Ma come sarebbe il mondo se…

Difficile definire una lingua e i suoi confini: tanto che i repertori mondiali che cercano di catalogarle variano tra le 4mila e le 11mila, e la stima più diffusa sta ovviamente nel mezzo – Languages of the world ne calcola quasi 7mila, 5mila delle quali stanno in soli 22 paesi (PapuaNuova Guinea, il paese che ne ha di più, ne conta 820). Il problema è innanzitutto di definizione, visto che anche noi tendiamo a dire, con qualche fondamento, che un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico, e viceversa una lingua è un dialetto dotato di esercito.

Soprattutto, la variabilità linguistica è un continuum (o un insieme di continua) nel quale è difficile distinguere gli elementi discreti: per motivi storici che ne determinano il diverso destino nel tempo, e perché oltre agli elementi di separazione e distinzione ci sono quelli di somiglianza che consentono reciproca comprensione (il caso più noto è forse quello di hindi e urdu perché scritte con alfabeti diversi, per ragioni che rimandano a una diversa appartenenza religiosa, eppure perfettamente intercomprensibili nell’oralità – ma vale anche per altre, in giro per l’Europa e per il mondo).

Quale che sia il numero stimato, e i motivi per cui si è sviluppata la diversità linguistica, assistiamo oggi a un processo di progressiva estinzione linguistica: oltre la metà delle lingue esistenti, circa 3.800, conta meno di 10mila locutori, quando la soglia di ragionevole sopravvivenza è di 100mila (che mantengono solo 1.239 lingue, meno del 18% del totale). Il che significa che la metà di esse potrebbe sparire nei prossimi cinquant’anni, secondo l’Atlante delle lingue in pericolo dell’Unesco: per l’estinzione o la migrazione dei parlanti di una lingua, o per il cedimento progressivo a una lingua dominante, in caso di bilinguismo. 

Come per la biodiversità, perdere una lingua – magari perché, sempre in analogia con la natura, sono stati distrutti i suoi ecosistemi – è certamente una perdita culturale. Al contempo c’è un elemento di selezione naturale, di competizione darwiniana, di sopravvivenza del più adatto. Le lingue si possono tuttavia rivivificare, come accade per nazionalismi, etnicismi e identitarismi (spesso con effetti collaterali problematici: ma se lo sono, lo si decide sempre sul piano storico): è quanto accaduto ad alcune lingue minoritarie anche europee, laddove se ne è reso obbligatorio l’utilizzo come lingue scritte, peraltro irrigidendole e limitandone le varianti (ogni lingua è imperialista su qualche altra…). E si possono pure inventare, come accaduto all’ebraico moderno, l’ivrit.

La variabile interveniente più interessante, oggi, che potrebbe cambiare molti scenari, è però la tecnologia. Non solo per la possibilità di conservazione delle lingue morenti in memorie esterne (scritte e audiovisuali), che potrebbero sempre essere rivivificate all’occorrenza: a somiglianza di quanto può accadere in botanica, o come immaginato dal fantasy per gli animali estinti (ma più ordinariamente, non è quanto già accade nella contraddittoria vitalità delle cosiddette lingue morte?).

La vera novità è l’efficacia sempre maggiore, che a brevissimo potrebbe superare gli standard della traduzione umana qualificata, dei traduttori automatici, sia per lo scritto che per il parlato.

La vera novità è l’efficacia sempre maggiore, che a brevissimo potrebbe superare gli standard della traduzione umana qualificata, dei traduttori automatici, sia per lo scritto che per il parlato. Questo consentirebbe una comunicazione istantanea, a prescindere dalle lingue di appartenenza: Babele e Pentecoste insieme, riunendo il meglio di entrambe – consentendo la possibilità di parlare e dunque mantenere le proprie lingue, ma capendosi ugualmente, senza bisogno di un occasionale miracolo dall’alto. E questo sia nella vita quotidiana che nel mondo della produzione e della comunicazione.

Penso a cosa vorrebbe dire in ambito accademico e scientifico, dove oggi se non pubblichi in inglese non esisti: da un lato il formarsi di un mercato globale della conoscenza, in un’unica lingua, al prezzo (modesto) di una sua semplificazione in una sorta di Basic English, dall’altro il vantaggio immenso di poter essere tradotti nelle lingue più diffuse a partire appunto dall’inglese, e soprattutto di poter leggere materiale accademico di lingue che non conosciamo.

Non più solo la necessità di una lingua comune, come oggi, ma la possibilità di rendere più visibili i prodotti scientifici e letterari delle periferie del mondo, nelle lingue più disparate, salvaguardandole tutte. E forse creandone di nuove.


Ph. © Clem Onojeghuo/Copyleft

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Stefano Allievi

Sociologo, Professore di Sociologia presso
l’Università degli studi di Padova.

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