Home Società Un percorso a spirale

Un percorso a spirale

di Elizabeth Green

di Elizabeth Green. Teologa e pastora battista, membro del Coordinamento teologhe italiane (CTI)

(Intervista a cura di Stefania Sarallo)

Elizabeth Green, teologa e pastora battista, si occupa soprattutto di ermeneutica e esegesi biblica, di cristianesimo e violenza sulle donne e di questioni di genere e sessualità in riferimento a Dio. Membro del Coordinamento teologhe italiane (CTI), è stata vice presidente dell’Associazione europea della ricerca teologica delle donne (Ewstr). Nel suo ultimo libro, Un percorso a spirale.Teologia femminista: l’ultimo decennio (Claudiana, 2020), riparte dai temi che hanno caratterizzato fin dall’inizio la teologia femminista e propone letture inedite della Bibbia che incoraggino, a partire da sé, un avvicinamento creativo al testo sacro.  

Nel suo ultimo libro ricorre a una figura, quella appunto della spirale, per descrivere il percorso compiuto dalla teologia femminista negli ultimi dieci anni, percorso fatto di alti e bassi, e di un continuo lavoro di recupero di ciò che è stato già detto. In che cosa si differenzia il pensiero femminista dell’ultimo decennio da quello che lo precede? Quali i suoi limiti e quali, invece, gli elementi di originalità?

“Un percorso a spirale”, è una citazione che nella frase originale di Mary Daly si riferisce alla storia delle donne tout court. Io la uso per descrivere innanzitutto gli ultimi 50-60 anni della teologia femminista riferendomi alle ripetute volte in cui siamo state costrette a riprendere gli inizi. Un reiterato cominciare da capo insomma. Infatti, i temi che tratto in questo libro (la maternità, la violenza maschile, il corpo, nonché la stessa figura di Dio) sono i temi cari alla teologia femminista dagli inizi ma che purtroppo sono tuttora attuali.  Se dovessi differenziare il pensiero femminista dell’ultimo decennio da quello che lo precede direi che ciò consiste nello sdoganamento del transfemminismo rispetto al pensiero della differenza sessuale. Anche se io sono convinta che le preoccupazioni del transfemminismo fossero presenti nella teologia femminista dall’inizio, in quanto si lavorava sulla natura intersezionale dell’esclusione delle donne. Ora, tuttavia, si comincia ad entrare maggiormente in dialogo con uomini consapevoli della parzialità del proprio genere e si va persino verso un superamento del binarismo maschile/femminile. Il rischio, man mano che si procede verso il pensiero queer, però, è che emerga un nuovo tipo di universale neutro incapace di far fronte alle tante ingiustizie che la società patriarcale riserva alle donne, in quanto donne. Ne discuto nel libro che ho scritto con Cristina Simonelli, Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista (San Paolo Edizioni, 2019). 

L’esclusione e l’oppressione delle donne operata dal pensiero patriarcale si interseca, quindi, con altre forme di dominio e subordinazione. Nell’esplorare la relazione tra le differenze, nel Capitolo V si sofferma, in particolare, sulla diversità di orientamento sessuale. Ci descrive brevemente il fondamento teologico protestante che supporta l’accoglienza delle persone omosessuali nelle Chiese?

Indubbiamente il protestantesimo  può fondare l’accoglienza delle persone Lgbtq+ nelle Chiese in diversi modi, ma io preferisco quello che secondo me va al cuore della questione e che ritengo inconfutabile (!), ovvero l’idea paolina di giustificazione per fede. Parte dall’idea che «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio». Ciò vuole dire che l’umano non possiede niente che lo o la può mettere nella giusta relazione con Dio. Quando Paolo scrive che “il vanto” è escluso, sta dicendo che l’essere qualcosa (maschio e non femmina, eterosessuale e non omosessuale), il fare qualcosa (le opere), l’avere qualcosa (ricchezze, status sociale, cultura) davanti a Dio non ha alcun peso. Di conseguenza, l’essere donna o lesbica, o gay o povero in canna non comporta assolutamente nessuno svantaggio agli occhi di Dio. Lo si afferma specificamente: «Non c’è distinzione/ discriminazione». E questo perché a mettere l’umano in relazione con Dio non siamo noi stessi bensì Cristo. Questa logica pervade le lettere ai Romani, ai Galati, e Prima Corinzi, ma ecco il testo base: «Infatti non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù» (Rom 3, 22-24). Nel resto della epistola Paolo sviluppa questa tesi traendone le conseguenze per la vita comunitaria, l’accoglienza reciproca da parte della comunità (Rom 15,7).


Dopo un lungo dibattito che ha avuto origine all’inizio del nuovo millennio, il Sinodo valdese e metodista del 2010 e l’Assemblea battista del 2016 non solo hanno esortato le Chiese ad affrontare ed approfondire la riflessione sulla questione dell’accoglienza delle persone omosessuali, ma hanno anche dato facoltà, alle Chiese che lo desiderano, di benedire coppie dello stesso sesso. Da allora, cosa è stato fatto all’interno delle Chiese protestanti italiane per mettere in pratica tali raccomandazioni? Quali e quante resistenze e ostacoli sono ancora in essere?

Premesso che non sono in una posizione tale da avere una visione completa delle Chiese protestanti nel nostro Paese, posso solo condividere l’idea che mi sono fatta al riguardo. È  ben noto che, sebbene siano state fatte delle benedizioni di coppie dello stesso sesso, non c’è stato quell’afflusso di benedizioni che alcuni temevano. Inoltre, le decisioni assembleari o sinodali sono state vissute come un punto di arrivo e non come un punto di partenza. È come se, ottenuta questa possibilità, “il caso” sia stato archiviato! Anche qui siamo davanti a un “percorso a spirale” perché molte sono le forze che, anche in modo subdolo, giocano contro queste decisioni. Ben poco si è fatto, almeno in ambito battista ma forse anche valdese e metodista, per implementare ciò che le delibere auspicavano, ovvero un approfondimento  dell’accoglienza (parola che non amo) delle persone Lgbtq+ in modo che tutte le comunità acquistassero consapevolezza della natura radicalmente inclusiva del messaggio affidato loro. Ho l’idea che si è preferito tacere, o perché si pensava che tutto già filava liscio o per non disturbare le acque quiete della vita comunitaria. La mia impressione è che, almeno in quest’anno e mezzo di pandemia, le Chiese evangeliche hanno abbastanza difficoltà a sopravvivere e preferiscono evitano temi potenzialmente problematici. Spero ovviamente di sbagliarmi ma finora, mentre abbiamo una mappa delle eco-comunità, non abbiamo una mappa delle comunità Lgbtq+ friendly. In ogni modo penso che scelte governate dalla prudenza siano a lungo andare  controproducenti. Se il protestantesimo ha motivo di esistere è in base alle sue scelte coraggiose. 

Si è appena conclusa la Settimana di preghiera per le vittime dell’omofobia e della transfobia (10 al 17 maggio) promossa da Chiese e gruppi di cristiani Lgbtq+. Ha dichiarato, in proposito, che avrebbe partecipato alle veglie «per superare le nostre paure profonde». Come possono le Chiese contribuire ad arginare il clima di violenza, generato dalla paura del “diverso”, che pervade le nostre società?

Mi piace l’immagine della chiesa come “palestra” dove ci si allena in un nuovo modo di rapportarsi privo delle dinamiche indotte dalla paura delle differenze. La chiesa fornisce un “contesto” che ci priva di per sé grazie all’amore di Cristo delle nostre paure. Annuncia un Dio che in Cristo ci accetta e questo permette ad ognun* di accettare se stess* nella propria complessità e ambiguità. Riconciliat* con noi stess*, non abbiamo più bisogno di proiettare su altr*  le nostre paure recondite. Nella mia esperienza lo spazio fisico della chiesa, proprio come luogo di culto, fornisce un ambiente che facilita l’incontro tra differenze che altrimenti  potrebbe non aver luogo. E tale incontro può generare delle sorprese gradevoli per ambedue le parti. Qualche anno fa, durante un culto per il superamento dell’omofobia, ho chiesto a un rappresentante dell’associazione Lgbtq+ di Cagliari con la quale collaboriamo (l’Arc) di pronunciare insieme a me la benedizione finale. È stato un gesto spontaneo e di grande forza simbolica, come se due comunità invocassero la benedizione l’una sull’altra.

Il Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede dello scorso 22 febbraio ha ribadito che  per la Chiesa cattolica non è lecito benedire forme di unione diverse dal matrimonio. Da pastora e teologa protestante, come legge questa presa di posizione della Chiesa cattolica in questo preciso momento storico? Ritiene che sia ancora lontana dal saper cogliere “i segni dei tempi” o intravede comunque degli spiragli?

Per rispondere a questa domanda bisogna conoscere le occasioni in cui è lecito per la Chiesa cattolica benedire persone, oggetti, luoghi. Ha la possibilità all’interno del proprio costrutto teologico di evadere questa richiesta e non lo ha fatto? O non lo ha fatto perché la sua teologia e prassi della benedizione non lo permette? Piuttosto io mi sono meravigliata del fatto che si sia pensato che fosse una possibilità! Non vedo nessuno scandalo, in questo la Chiesa cattolica è fedele a se stessa. Ha sempre dichiarato che il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna. Dal mio punto di vista c’è un motivo profondo e difficilmente scardinabile per questa insistenza: la differenza sessuale è fondamentale per l’ordine simbolico del cattolicesimo. A tenere ferma questa differenza e il ruolo subordinato delle donne (l’esclusione dal sacramento dell’ordine) è la figura della Vergine Maria. Intaccare questo ordine permettendo un’unione tra due persone dello stesso sesso avrebbe grosse conseguenze per un ordine costruito sull’esclusione delle donne. (Tema approfondito nel saggio scritto per una raccolta in corso di pubblicazione, Maschilità in questione, a cura di Marinella Perroni e Antonio Autiero). Detto ciò, bisogna comprendere che il cattolicesimo è un fenomeno molto variegato (esattamente come il protestantesimo!) che vive da un’unità più simbolica che reale. Non c’è da escludere che qualche sacerdote da qualche parte faccia una liturgia della parola che  assomigli molto a una benedizione di persone dello stesso sesso. Da questo diniego, quindi, non direi che la Chiesa cattolica non sappia cogliere i segni dei tempi. Anzi papa Francesco ha dato prova di saperli cogliere molto bene. Ma da lì a convertirli in prassi universale (ovvero “cattolica”) ce ne vuole e sarà, penso, per vie diverse da qualcosa che assomigli a un matrimonio. D’altronde io ho qualche dubbio che sia compito delle Chiese celebrare matrimoni di qualsiasi tipo.

Ph © Sharon Mccutcheon  / CopyLeft

Picture of Elizabeth Green

Elizabeth Green

Teologa e pastora battista, membro del Coordinamento teologhe italiane (CTI)

Abbonati ora!

Solo 4 € al mese, tutta Confronti
Novità

Seguici sui social

Articoli correlati

Scrivici
Send via WhatsApp