di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Nasceva un secolo fa a Mosca il più nuovo se non il più grande degli scrittori dell’Ottocento, anticipatore e perlustratore di una diversa visione della letteratura, delle sue possibilità e dei suoi compiti, come conseguenza di una nuova visione dell’uomo e della società. Disse sinteticamente e benissimo Alberto Moravia, scrittore oggi trascurato forse perché fu in vita troppo presente: Fëdor Michajlovič Dostoevskij ha imposto «il personaggio dell’antieroe nel quale è privilegiata non già la vita sociale ma la vita interiore».
Quando diede alle stampe il suo, diciamo così, manifesto, le Memorie del sottosuolo (1865) Dostoevskij aveva già scritto dei capolavori: Povera gente, il suo unico romanzo dentro la tradizione, e Il sosia, Le notti bianche e le Memorie da una casa di morti; ma è nelle Memorie dal sottosuolo, non più quelle della “casa dei morti” in cui aveva sofferto le sue prigioni sotto lo zar, che affrontò l’esplorazione di un “sottosuolo” più intimo, il sottosuolo del conscio e dell’inconscio. Cominciava così quel grande libro, uno dei più sconvolgenti di tutti i tempi: «Sono un uomo malato… sono un uomo cattivo», ed era uno scavo nel profondo del proprio animo e dell’animo umano, del dono e della condanna dell’esistenza, della nostra imperfezione ma anche del “nostro bisogno di consolazione”, come disse un suo tardo figlio, il giovane svedese Stig Dagerman.
Il sembrare e il volere però essere, il non sentirsi accettato dal mondo e consono al mondo, la perfidia egotistica e al contrario la spinta altruistica sopraffatta quasi sempre dall’altrui drammatica e spesso cosciente cattiveria – salvo che in alcuni personaggi di puri, il più memorabile di tutti il piccolo santo Aljoscia dei Fratelli Karamazov… È forse questo il romanzo di Dostoevskij che molti di noi hanno più amato. Lo scoprii ragazzo nella vecchia BUR, dopo aver letto, perplesso e affascinato, Delitto e castigo, e sono grato a quel grande romanzo di aver dato esca e risposta ai tormenti dell’adolescenza mia e di tantissimi – uno dei libri fondamentali della mia formazione insieme a Cristo si è fermato a Eboli, che mi spinse a scendere a sud, e alle Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge che mi mise in guardia dai pericoli delle rivoluzioni vincenti senza per questo farmi rinunciare all’idea della lotta per il socialismo, all’indispensabilità di un progetto di solidarietà… Il bene esiste ma è più debole del male, e ciò nondimeno guai a rinunciare a cercarlo, a difenderlo, a praticarlo!
Con l’occasione dell’anniversario, più editori hanno riproposto Dostoevskij, ma preferibilmente le sue opere brevi. Ne segnalo tre di questi giorni: le imprescindibili Memorie dal sottosuolo edito da Neri Pozza, traduzione e cura di Serena Prina, ma ricordando, ancora presso Adelphi, la traduzione che ne fece Tommaso Landolfi, in complessa sintonia; La febbre del gioco di Marcos y Marcos che raccoglie per cura dell’ottimo Fausto Malcovati lettere dell’autore sull’argomento – sulle sue malsane ossessioni ed esperienze di giocatore, di cupo sfidante della sorte – insieme alla memorie della moglie dello scrittore e a brani del lungo racconto Il giocatore, fortemente autobiografico, con l’aggiunta utilissima di quel che di Dostoevskij e della malattia del gioco scrisse Sigmund Freud; e infine il racconto La mite, da Adelphi e nella traduzione e con la prefazione di Serena Vitale, grande studiosa della letteratura russa ma anche grande scrittrice di suo…
Ho letto più volte La mite, standoci male ogni volta; e ho visto più volte Così bella, così dolce, il film che ne trasse Robert Bresson, il più dostoevskiano dei grandi registi del cinema, che osò con L’argent trasformare in dostoevskiano anche un racconto geniale e però dal finale evangelicamente positivo di Tolstoj, La cambiale falsa. La mite è la confessione-scavo in prima persona di un uomo mediocre, di un uomo qualsiasi, di un uomo del sottosuolo a confronto con una giovane moglie che egli non ha saputo comprendere e davvero amare spingendola di fatto a morire, e che è nient’altro che una “pura di cuore” come quelli di cui parla Gesù nelle Beatitudini, il brano del Vangelo che dovrebbe forse esserci, oggi e sempre, tra i più cari nella nostra quotidiana frequentazione del prossimo.

Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini