di Claudia De Martino. Cultrice presso la cattedra Political Thought for Colonization and Decolonization al dipartimento Coris della Sapienza.
Tutte le guerre forse sembrano inutili con il senno di poi, tuttavia all’interno di questo ultimo conflitto che vede opporsi Israele, da un lato, e Hamas e la Jihad islamica, dall’altro, è impossibile intravedere un vincitore. Dopo 11 giorni di guerra, è stato dichiarato il cessato-il-fuoco tra le parti, ma la nuova tregua non cambierà sostanzialmente alcun dato del conflitto: né il serrato blocco a cui è sottoposta da quindici anni la Striscia di Gaza, né il continuo espansionismo israeliano nella Città Vecchia e nei quartieri di Gerusalemme est – come la Spianata delle Moschee e Sheikh Jarrah, da cui è partita la rivolta palestinese contro le usurpazioni dei coloni israeliani –, né la distanza e l’asimmetria che contraddistingue le posizioni tra le due parti, ciclicamente in lotta tra di loro, ma con una sproporzione evidente di vittime ad ogni conflitto (l’ultima operazione, Margine Protettivo, risalente al 2014, era terminata con reciprocamente con 70 vittime israeliane e 2310 palestinesi).
È lecito, dunque, porsi la domanda su quale obiettivo abbia perseguito da parte palestinese l’avvio dell’ultima offensiva, coinciso con l’ultimatum lanciato da Mohammed Deif, capo delle Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām, braccio militare di Hamas, il 10 maggio scorso circa le violenze della polizia israeliana contro i manifestanti palestinesi alla Spianata delle Moschee. Hamas si è intestato la battaglia per la resistenza alla continua espulsione di Palestinesi da Gerusalemme, ma anche la protesta contro la progressiva marginalizzazione della “questione palestinese” dall’agenda internazionale. Ha pensato che la popolazione della Striscia fosse comunque già strangolata da condizioni di vita insostenibili – assenza di acqua potabile, parziale fornitura d’elettricità, ammassamento dei rifiuti a cielo aperto, un tasso di disoccupazione al 70%, 80% della popolazione dipendente da donazioni estere, diffusione del Covid-19 a fronte della somministrazione di pochi vaccini –, ma anche confrontata con l’assenza di prospettive circa la rimozione del blocco, data la sospensione a tempo indeterminato delle elezioni palestinesi, ivi incluse quelle per il rinnovo della rappresentanza all’interno dell’OLP, annunciata lo scorso 30 aprile. In conclusione, i circa 2 milioni di abitanti della Striscia non avevano nulla da perdere perché non hanno niente di positivo da attendersi dal futuro.
Il calcolo politico di Hamas è stato, quindi, che fosse possibile giungere ad un punto di non-ritorno per l’organizzazione dei Fratelli musulmani nella Striscia, già penalizzati dal bando delle elezioni, qualora avesse tollerato in silenzio la serie di gesti di tracotanza compiuti dalle forze di sicurezza israeliane a partire dall’8 maggio, iniziati con l’ordine di bloccare i fedeli musulmani in viaggio dai Territori occupati verso la Spianata delle Moschee in vista della celebrazione della fine del Ramadan fino all’ingresso delle forze di polizia armate nel recinto stesso della Spianata lo scorso 9 maggio. Questa serie di abusi si sarebbe dovuta concludere idealmente il 10 maggio con l’annuale “parata nazionalista delle Bandiere” capitanata da Itamar Ben Gvir, deputato di Otzma Yehudit, ovvero l’estrema destra nazionalistica israeliana rappresentata in Parlamento, per i vicoli del quartiere arabo della Città Vecchia e i Palestinesi avrebbero allora avvertito un senso di fortissima impotenza e frustrazione di fronte ad eventi esterni che li travolgevano, negandone l’esistenza collettiva e le aspirazioni fondamentali al cospetto del silenzio complice di al-Fatah e dell’ANP. La decisione di Hamas di passare all’azione attraverso il consueto lancio di razzi – anche se militarmente fine a sé stessa – è dunque perfettamente consequenziale
, anche se il suo significato non è da ricondurre all’eventuale conquista di un vantaggio militare, quanto al valore di sterile testimonianza da parte di una leadership politica confrontata a scelte dolorose sul piano interno e interessata a intercettare i sentimenti di disfatta e abbandono in cui versa una vasta parte dell’opinione pubblica palestinese rimasta orfana di rappresentanza, che non si sente più “protetta” da alcuna forza politica né sostenuta dalla comunità internazionale.
Completamente opposto il calcolo avvenuto da parte israeliana. Per il Premier ad interim Benyamin Netanyahu, il lancio di razzi da parte di Hamas è intervenuto come un intervento provvidenziale in un momento difficile in cui il suo mandato esplorativo si era esaurito e il suo principale rivale, Yair Lapid, il 5 maggio scorso, aveva ottenuto l’incarico di costituire un “governo di cambiamento” che avrebbe avuto il principale obiettivo di sostituirlo al potere, da lui detenuto ininterrottamente dal 2009. I 3000 razzi provenienti dalla Striscia non hanno certo rappresentato una minaccia per lo Stato ebraico e per l’IDF-, il ventesimo esercito al mondo sostenuto dalla superpotenza degli Stati Uniti-, ma piuttosto una doppia opportunità: per il Premier uscente, la possibilità di deviare l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dai suoi tre processi, ricompattandola a maggioranza intorno alla Destra presentata ancora una volta come l’unico “scudo” di Israele, e per l’IDF, un ideale campo di prova della sua nuova capacità di fuoco, senza rischi di sensibili perdite umane, essendo l’operazione esclusivamente incentrata su attacchi aerei.
Il risultato politico immediato è stato nettamente positivo: ha nullificato qualsiasi prospettiva di costruire una “coalizione per il cambiamento”, dal momento che Naftali Bennet di Yamina si è riavvicinato al Premier uscente in un’ottica di superiore interesse nazionale, così come l’ex rivale Benny Gantz. Lo scoppio improvviso della guerra ha favorito Netanyahu da tutti i punti di vista: egli potrebbe ottenere un nuovo mandato all’indomani del 5 giugno, data della scadenza dell’attuale incarico a Lapid, o comunque estendere il suo governo ad interim in vista di un quinto turno elettorale, data l’impossibilità della controparte di creare una maggioranza. La guerra ha inoltre incontrato il forte sostegno dell’opinione pubblica ebraica che, a maggioranza, prova una forte indifferenza nei confronti della Striscia, conoscendone parzialmente le condizioni di vita, e si ritiene ingiustificatamente vittima di migliaia di razzi come un’esplosione di violenza improvvisa e irrazionale scagliata da una forza bollata come “terroristica”, ovvero pericolosa ed illegittima, anche da molti attori internazionali, inclusi Egitto, USA e UE.
Il copione si ripete inalterato, dunque, e tuttavia esistono dei nuovi elementi che, ad ogni ulteriore scontro, radicalizzano le posizioni delle parti: in primis, lo scontro arabo-ebraico avvenuto all’interno di Israele nei giorni tra il 10 e il 12 maggio, in particolare nelle città miste come Lod e Haifa, ma anche in località come Bat Yam alla periferia di Tel Aviv. Tali scontri hanno visto affrontarsi i segmenti più radicali delle due comunità, ma anche quelli maggiormente ignorati dalle rispettive classi dirigenti. Essi hanno rivelato all’opinione pubblica israeliana che esistono elementi fanatici interni alla comunità ebraica che non temono di incitare all’odio razziale gridando “morte agli arabi” e praticare linciaggi, così come l’esistenza di una rabbia ed una violenza repressa talmente diffuse nella parte araba che possono esplodere in qualsiasi momento. Un dato che trova la propria origine nella marginalità in cui versa parte della comunità araba in Israele, quella colpevole dei circa 100 omicidi registrati all’anno nell’impunità generale: una violenza deplorata dalla stessa minoranza araba d’Israele che tuttavia è sistematicamente ignorata dalla polizia israeliana. Infine, gli scontri tra arabi e israeliani nelle città miste potrebbero condurre alla cancellazione di tutti i progressi ottenuti fino al 10 maggio scorso circa il possibile ingresso di un partito arabo al governo o la sua legittimazione parziale attraverso un appoggio esterno alla coalizione di governo. Le cicatrici più profonde si avranno, dunque, dal lato israeliano: nello sfilacciamento del tessuto sociale interno, ma anche nei mancati sviluppi a cui auspicava la parte più progressista (o pragmatica) delle due comunità.
Hamas e Netanyahu rappresentano la parte più retriva dei due gruppi nazionali che si fronteggiano: entrambi, nell’impossibilità di annullarsi a vicenda, devono necessariamente trovare una formula di coesistenza, e la trovano in tregue transitorie alternate a nuovi cicli di guerra asimmetrici che conferiscono un minimo di legittimità politica ad Hamas, ma al prezzo di molte vittime civili, e garantiscono la continuità ininterrotta al potere della Destra israeliana.
È possibile immaginarsi uno scenario diverso in cui nel 2028 – o forse anche prima – non si ripeta una nuova effimera dinamica di conflitto militare analoga a quella a cui stiamo assistendo in questi giorni? Si, ma occorre riformulare la prospettiva attraverso cui si interpreta il conflitto per accorgersi che non si tratta più di uno scontro tra “due o tre Stati”, ovvero tra uno Stato-Davide contro uno Stato-Golia, ma di un popolo palestinese senza più guida né rappresentanza politica che si batte per la propria sopravvivenza contro uno Stato potente che sempre più sta sottolineando un carattere etnico, che si vorrebbe la più grande democrazia del Medio Oriente, ma rivela sempre più le sue fragilità – per usare le parole di Sami Cohen – e che – come rilevato da un recente report dell’Ong Human Rights Watch – è addirittura a rischio apartheid.
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Claudia De Martino
Cultrice presso la cattedra Political Thought for Colonization and Decolonization al dipartimento Coris della Sapienza.