di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
Dopo la morte di Idriss Déby Itno, presidente del Ciad, in circostanze misteriose, il leader francese Macron ha appoggiato il Consiglio militare di transizione che ha sciolto governo e parlamento, mettendo a rischio la posizione della Francia come guardiana del Sahel.
L’esercito statunitense e l’alleanza internazionale che hanno combattuto i talebani lasciano dopo 20 anni l’Afghanistan. Il Paese non è pacificato, la democrazia caldeggiata dagli occidentali resta un miraggio (così come la agognata stabilità politica) e gli islamisti si preparano a rientrare da protagonisti nel “grande gioco”. Una esperienza tanto fallimentare dovrebbe essere un monito dal ripetere analoghe opzioni militari. Invece anche il Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad) rischia di trasformarsi in un nuovo Afghanistan (se non addirittura in un altro Vietnam).
Nell’area a muovere i fili è storicamente la Francia, forte della lunga esperienza coloniale, ossessionata dal garantire la stabilità politica per poter continuare ad esercitare influenza politica ed economica. La morte di Idriss Déby Itno, presidente del Ciad, ha denudato ulteriormente il re.
Il Ciad è una nazione grande almeno 4 volte l’Italia, si parlano 132 diverse lingue, occupa il 186° posto nella drammatica classifica dell’indice dello sviluppo umano mentre è tra i primi al mondo per la corruzione. Se si esclude il primo presidente nel 1960, nessun leader è mai arrivato al potere democraticamente. E Déby non ha rappresentato una eccezione.
Un golpe gli consentì di occupare la prima carica dello stato fin dal 1990, proprio grazie all’appoggio di Parigi, che lo ha sempre ritenuto un alleato tanto affidabile da salvarlo in almeno tre occasioni da contro-colpi di stato tentati dai suoi numerosi nemici. 31 anni vissuti pericolosamente ma saldamente al comando nel nome della stabilità. Occhi bendati ed orecchie tappate da parte dell’Occidente sulle strazianti urla nel silenzio lanciate dai numerosi oppositori incarcerati, picchiati, uccisi. Gli abusi sono diventati parte integrante del suo esercizio di potere, celebrato da elezioni farsa vinte sempre con percentuali bulgare.
L’esercito ciadiano è l’architrave su cui poggia l’intera coalizione militare del G5 Sahel che si batte contro l’offensiva jiahidista di Al Qaeda e Califfato islamico, che dopo le sconfitte subìte vuole ripartire proprio da questa regione dell’Africa per costruire un ideale ponte “armato” con l’oriente in nome della shari’a. Nella capitale N’Djamena è ospitato il quartier generale dell’operazione militare francese Barkhane che schiera 5.200 soldati contro i terroristi.
Osservando la carta geografica ci si rende immediatamente conto del ruolo strategico del Ciad circondato a nord dalla Libia che vive nel caos da 10 anni, a sud dalla Repubblica Centrafricana squassata da anni di violenze, il Darfur sempre in ebollizione ad est, lago Ciad e Sahel ad ovest spazzati dalla tempesta della jihad. Un quadro decisamente preoccupante che ha convinto la Francia a puntare tutte le sue carte su Déby.
La notizia della sua morte in combattimento il 20 aprile nel Nord del Paese ha colto tutti in contropiede: ancora da chiarire le circostanze, avvolte dalla nebbia dei sospetti. Quello su cui però Parigi non ha avuto alcuna esitazione è stato l’appoggio fornito al Consiglio militare di transizione che ha sciolto governo e parlamento, impegnandosi a «garantire l’indipendenza nazionale, il rispetto degli accordi e dei trattati internazionali, assicurando la transizione per un periodo di 18 mesi al termine del quale saranno indette elezioni democratiche».
Particolare non irrilevante la designazione alla guida del Paese del generale Mahamat Idriss Déby, 37 anni, figlio del defunto presidente. Insomma un colpo di stato consumato in famiglia che ha spaccato anche l’esercito. Nessuna nazione occidentale ha però sottolineato che in Ciad si è consumato l’ennesimo golpe che con un colpo di spugna ha cancellato la costituzione che prevedeva in caso di morte di capo dello stato che a succedergli fosse il presidente del parlamento.
Il presidente francese Emmanuel Macron a marzo aveva lapidariamente affermato che «la tenuta del paese è essenziale: se cedesse la diga ciadiana, dopo la Libia, tutta la regione del Sahel sarebbe sommersa dal terrorismo jihaidista». Nel nome delle ragioni di stato si calpestano diritti umani e politici.
In questa complessa vicenda c’è anche la consapevolezza che una vittoria militare è improbabile per le difficoltà di una guerra fluida, senza fronti. Il rischio di una ritirata sul modello afghano sarebbe anche la fine del concetto di Francia guardiana del Sahel.
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Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana