di Marzia Coronati. Giornalista Rai RadioTre.
Sono passati venti anni dal G8 di Genova. Nel 2001 nessuno possedeva uno smartphone e internet era ancora poco accessibile. Nel corso del vertice e del contro-vertice gli stessi manifestanti decisero di fotografare e filmare quanto stava accadendo, contribuendo alla realizzazione di un archivio prezioso, soprattutto per i processi che si sono svolti negli anni a seguire. Un ruolo fondamentale, in quei caldi giorni di luglio fu svolto da Radio Gap – network di radio indipendenti italiane che per la prima volta coniuga la diffusione in FM con quella su internet – e da Indymedia, “un primo embrionale tentativo di social network”, come lo ha definito l’informatico e mediattivista Marco Trotta. Le dirette radio, i video dei manifestanti, le fotografie, le singole memorie archiviate dopo quei giorni oggi sono essenziali per ricostruire un fondamentale capitolo della nostra storia.
La notte del 21 luglio 2001, mentre duecento poliziotti varcano la porta della scuola Diaz, assaltando e picchiando a sangue decine di manifestanti, un gruppo di persone assisteva sconcertato dalle finestre dell’edificio di fronte, la scuola Pascoli, dove era stato allestito un media center indipendente. Quasi tutti i partecipanti dei tre giorni di manifestazioni nel capoluogo ligure possedevano un cellulare – di quelli con cui si poteva solo telefonare o scrivere sms – una macchina fotografica o una videocamera. L’idea, mutuata dalle piazze di Seattle, era quella di registrare quanto sarebbe accaduto nelle strade, mentre i ministri delle otto potenze più influenti della Terra si incontravano nel Palazzo Ducale. Il centro nevralgico di questo innovativo sistema di pensare la comunicazione e l’informazione era costituito dal media center alla scuola Pascoli, organizzato in un’enorme sala stampa a libero accesso, uno spazio dedicato al Genoa Social Forum e alla radio e un terzo piano occupato dagli animatori di Indymedia. «Non odiare i media, sii media», era lo slogan che muoveva le donne e gli uomini che in quei giorni avevano deciso di scendere in piazza; molti di loro facevano parte di quei movimenti definiti genericamente “no global”, persone interessate a capire il contesto globale attraverso letture importanti come quelle di Naomi Klein, Noam Chomsky e Vandana Shiva, per poi agire nel locale con campagne di informazione, attività e interventi volti a informare e coinvolgere la società civile. “Pensa globale, agisci locale”. Tra di loro c’era anche Marco Trotta, informatico, mediattivista, ai tempi collaboratore della rivista Carta.
MT – Sono arrivato con uno zaino sulle spalle e per tre giorni non me lo sono mai tolto. Il 18 luglio ero salito su un treno da Bologna che aveva impiegato più di dieci ore per arrivare a Genova, veniva fermato continuamente… ho perso anche il concerto di Manu Chao, che era previsto per quella sera.
Nei giorni successivi partecipavo alle manifestazioni e con il mio cellulare riferivo alla redazione di Carta quello che stava accadendo. Le prime due notti ho dormito nel media center alla scuola Pascoli, il 20 luglio invece nella sede di Radio Popolare, su delle assi di legno. Il 21 sera sono passato di fronte alla Diaz, pensando di dormire lì, ma poi ho deciso che ero troppo stanco e sono andato alla stazione di Brignole, per prendere un treno e tornare a Bologna.
Marco Trotta la definisce una storia di “sliding doors”. Lui, come centinaia di altri manifestanti, il 20 luglio era in via Tolemaide quando il corteo fu caricato dalle forze dell’ordine, ma riuscì miracolosamente a infilarsi in un pertugio e a non farsi male, era a duecento metri da piazza Alimonda nel momento in cui i carabinieri uccidevano Carlo Giuliani, e aveva rischiato di dormire alla Diaz quella notte in cui le forze dell’ordine picchiarono e torturano decine di ragazzi, poi la stanchezza aveva preso il sopravvento.
MT – Alla stazione di Brignole ho trascorso diverse ore, i treni non passavano e insieme a molte altre persone aspettavamo lungo i binari. Intanto, sui cellulari ormai semi-scarichi, ricevevamo chiamate e messaggi che ci informavano su quello che stava accadendo alla Diaz, arrivavano richieste di aiuto e appelli a denunciare alle istituzioni le violazioni che erano in atto, tutto questo mentre i poliziotti passeggiavano su e giù per la banchina, con un chiaro atteggiamento intimidatorio.
Decine di file audio raccontano quelle ore: gli elicotteri che volano bassi, i manifestanti spossati da tre giorni di guerriglia, e poi l’attacco delle forze dell’ordine al media center, raccontato in diretta dalla voce concitata di Lorenzo Galeazzi, che descriveva in tempo reale quello che stava accadendo, con i poliziotti che sfondavano le porte e picchiavano gli attivisti. Quell’audio ormai è diventato una clip famosa, un pezzo di radio che ha fatto storia. Galeazzi era al microfono di Radio Gap, un esperimento ben riuscito di network di radio comunitarie che per la prima volta nella storia radiofonica italiana diffondeva i contenuti non solo via FM, attraverso una frequenza pirata che era in grado di trasmettere dentro tutta la città di Genova (oltrepassando la zona rossa delle interdizioni a manifestare o trasmettere), ma anche via internet, permettendo alle redazioni di Torino, di Roma, di Cosenza e di molte altre città d’Italia di riprenderne i contenuti e di diffonderli in tempi rapidissimi nel nostro Paese ma anche all’estero.
Forse non è un caso che in queste settimane, a venti anni dal G8 di Genova, alcuni importanti media italiani tornano a raccontare i tre giorni di vertice e contro-vertice attraverso lo strumento radiofonico, come Internazionale, con il podcast Limoni, e Radio Rai Tre, con un ciclo di cinque puntate trasmesse in un podcast originale Radio Rai Tre, che hanno ricostruito la storia anche grazie al materiale audiovisivo di allora.
MT – Molte cose non le avrei sapute se non avessi ascoltato costantemente le dirette di radio Gap, inoltre prima di partire girava voce che la rete GSM, quella dei cellulari, sarebbe stata sospesa, perciò sapevamo che c’era la possibilità che l’etere e internet rimanessero gli unici luoghi in cui fosse possibile veicolare informazioni. Sono contento che oggi si stiano realizzando dei podcast che raccontano il G8, perché permettono una narrazione lunga e accessibile e perché rimettono al centro la parola, senza esporre visivamente le violenze.
Radio Gap era nata dalla collaborazione tra Radio Black Out di Torino, Radio Ciroma di Cosenza, Radio Fujiko e Radio K Centrale di Bologna, Radio Onda d’Urto di Brescia e Milano, Agenzia Amisnet e Radio Onda Rossa di Roma, in pratica quasi tutte le realtà radiofoniche di quegli anni più attente a raccontare minoranze e movimenti (esclusa Radio Sherwood, la radio dei “disobbedienti”, che aveva deciso di lavorare autonomamente). Quell’esperimento fu uno spartiacque: da allora in poi la radio si muoverà tra diffusione via etere e internet, producendo sia le dirette FM che potevano essere ascoltate a Genova sia un grande quantitativo di materiale audio caricato online, oggi comunemente definito “podcast”, che consentiva l’ascolto da ogni angolo d’Italia e del mondo.
Ma non c’era solo la radio. Molti video e foto cruciali per ricostruire quegli avvenimenti furono rapidamente caricate online su sito di Indymedia, un modello di fare informazione nato nel novembre del 1999, a Seattle, in corrispondenza delle manifestazioni contro il Wto; un sistema molto simile a quello che oggi potremmo definire citizen journalism, ma strettamente legato all’attivismo e a tutti quei movimenti sociali e politici che si articolavano nei territori. Indymedia un anno dopo era approdato anche in Italia.
MT – Indymedia Italia nasce a Bologna, una città in cui già dagli anni ’70, con le esperienze delle radio libere, si produceva un’informazione diversa da quella mainstream. Nel 2000, in occasione del vertice Ocse, nel corso di una delle prime contestazioni contro le organizzazioni internazionali fatte in Italia, le telecamere dei manifestanti documentarono le proteste, inquadrandole “dall’altra parte.” Fino a quel momento si poteva avere solo la versione dei grandi media, che difficilmente denunciavano gli abusi e le violenze in piazza e che soprattutto omettevano le ragioni dei manifestanti. Indymedia colmava questa lacuna in un modo molto nuovo: grazie al linguaggio di programmazione PHP faceva in modo che i consumatori potessero diventare anche produttori di contenuti. Chi consultava il sito poteva contribuire e caricare il proprio video o le proprie foto, una cosa che oggi sembra banale ma che era completamente nuova nel 2000, quando i siti erano ancora statici. Indymedia è stato la prima idea di social network, in un’epoca in cui i social network non esistevano proprio.
Passano pochissimi anni e tutto cambia. Youtube arriva nel 2006 e dà la possibilità di condividere i video, poco dopo sarà la volta di Facebook, e poi Twitter e Instagram, luoghi di scambio di massa che saranno sempre più utilizzati soprattutto grazie agli smartphone, che nel giro di pochi anni, a partire dal 2007, spopoleranno anche in Italia. Ma nel 2001 ancora si sapeva molto poco di questo mondo e le notizie arrivavano soprattutto attraverso i telegiornali.
MT – Nei giorni di Genova è accaduta una cosa straordinaria. I contenuti dei mediattivisti sono serviti per raccontare anche sulle piattaforme mainstream quello che stava accadendo. Il caso più eclatante è stato quello del video che ritraeva il blitz della polizia alla Diaz, che fu trasmesso in prima serata al tg5 di Enrico Mentana. Cancellarono il logo Indymedia, ma comunque lo misero in prima serata e questo cambiò il racconto di quella notte. Si era finalmente introdotta una discrepanza nella narrazione, un punto di svolta che influirà anche su quello che accadrà in seguito nelle aule dei tribunali, quando emergerà con chiarezza che le vicende della Diaz costituivano la più grande sospensione dei diritti umani in occidente dal dopoguerra in poi.
Nelle settimane successive a quel tragico luglio risultò sempre più evidente quanto il materiale raccolto dai mediattivisti fosse prezioso e di lì a poco quattro centri sociali e l’Agenzia Stampa Amisnet di Roma furono oggetto di perquisizioni.
MT – Nell’agosto 2001 un primo rapido montato fu diffuso in VHS con il titolo “Aggiornamenti #1”, ricordo che io stesso giravo l’Italia con questa videocassetta per mostrarne i contenuti (ndr: è stato successivamente rieditato. Ora si può scaricare da NGVision). Quel video fu il primo tentativo di squarciare il velo della ricostruzione massmediatica grazie a testimonianze dirette dalla piazza. Che il lavoro dei mediattivisti di allora fosse fastidioso fu chiaro quando il 20 febbraio 2002 un’operazione congiunta dei carabinieri portò alla perquisizione di centri sociali e altre sedi. L’obiettivo era acquisire materiali da utilizzare “per tutti i filoni d’indagine del G8, sia quelle sui manifestanti violenti sia quelle che riguardano i presunti abusi da parte delle forze dell’ordine” nelle indagini coordinate dai pm genovesi Anna Canepa e Andrea Chianciani. In realtà molto di quel materiale fu usato per imbastire le inchieste sui cosiddetti “fatti di strada” che riguardavano le violenze dei manifestanti.
Nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi a Genova 2001, proprio sull’onda del fermento di quei giorni, molte realtà di comunicazione locali e indipendenti continuarono a lavorare in Italia e all’estero per comunicare e dare voce, per garantire la pluralità dell’informazione e raggiungere le minoranze. È accaduto, ad esempio, in Palestina, in Cisgiordania, in Tunisia. Trasmissioni radiofoniche e contenuti audio sono stati diffusi dagli angoli più remoti del mondo, per raccontare storie che non sarebbero mai giunte alle nostre orecchie, il tutto mentre la rivoluzione digitale faceva capolino. Nel corso delle primavere arabe, delle lotte dei Gilets Jaunes, delle manifestazioni dei Friday for future è stato comune utilizzare siti internet e soprattutto social network per veicolare contenuti, ma questa volta non si trattava più dell’esperimento Indymedia, ma di enormi piattaforme gestite dai colossi del web.
MT – A mio parere i cosiddetti “media tattici” sono solo un’illusione. È stato evidente negli anni che mettere in rete un’informazione in un luogo dove c’è grande tracciamento crea le condizioni per la censura. E allora? Esistono i vademecum, istruzioni per capire come muoversi nel mondo digitale in sicurezza, come caricare le foto in modo da non essere taggati, come usare forme di comunicazione criptata… se vuoi fare in modo di uscire fuori delle bolle, dal controllo e dalla censura devi informarti, studiare e armarti di strumenti adeguati.
Ph. © han Soete

Marzia Coronati
Giornalista Rai RadioTre