di Yassin al-Haj Saleh. Scrittore e intellettuale siriano
(intervista a cura di Asmae Dachan)
Yassin al-Haj Saleh è uno scrittore siriano e dissidente politico. Si occupa principalmente di temi politici, sociali e culturali relativi alla Siria e al mondo arabo. Ha studiato medicina ad Aleppo, ma i suoi studi sono stati interrotti perché dal 1980 al 1996 è stato incarcerato nelle prigioni siriane a causa della sua appartenenza al Partito comunista siriano, in opposizione al governo. Ha definito l’esperienza del carcere come un modo per evadere dalle “prigioni interne [della] stretta affiliazione politica [e della] rigida ideologia”, definendo la rivoluzione siriana una “lotta aperta e multilivello”.
Ciononostante è sempre rimasto legato all’orientamento marxista. Ha sostenuto l’esame finale di medicina generale nel 2000, ma non ha mai esercitato la professione medica. Nel 2012 ha ricevuto il Prince Claus Award (Olanda) ma non è stato in grado di ritirare il premio perché si trovava allora in condizione di clandestinità. Al-Haj Saleh è sposato con Samira Khalil, una dissidente comunista nonché ex detenuta politica e attivista rivoluzionaria, che è stata rapita in Siria nel dicembre 2013. Dopo 21 mesi di clandestinità, perché ricercato sia dal governo che dai militanti islamisti radicali, è fuggito in Turchia e ha vissuto a Istanbul fino al 2017.
In questo stesso anno gli è stato assegnato il Premio Tucholsky (Svezia). Al-Haj Saleh è attualmente impegnato presso l’Istituto per studi avanzati di Berlino (Wissenschaftskolleg zu Berlin).Lo scorso marzo è uscito in Italia il suo ultimo libro Siria, la rivoluzione impossibile. La rivoluzione, la guerra civile la guerra pubblica in Siria (Mreditori, 2021).
Come descriverebbe la situazione dei diritti umani in Siria a dieci anni dall’inizio delle rivolte?
I diritti umani sono connessi, in ogni luogo del mondo, ai diritti di cittadinanza, all’esistenza di una vita politica basata sul pluralismo, la libertà di opinione, come il diritto all’opposizione pacifica; tutti diritti di cui sono stati privati i cittadini siriani per oltre mezzo secolo, dall’insediamento del governo della dinastia assadista. Lo Stato è stato privatizzato in Siria dagli anni Settanta del XX secolo, tanto che il Paese è stato dato in eredità dal tiranno padre al tiranno figlio, entrambi assassini. Per oltre cinquant’anni, i siriani sono stati trattati come sudditi, non come cittadini, e coloro che si sono opposti hanno trascorso molto tempo in prigione, o sono stati uccisi.
Il 96% dei siriani ha meno di 60 anni e ha vissuto in estrema povertà politica per tutta la vita; con questo intendo dire che è stato loro vietato di incontrarsi anche in spazi privati e parlare di affari pubblici. La politica, nella sua definizione più semplice, è riunire le persone e parlare delle loro questioni comuni. Questo impoverimento politico, tra l’altro, è ciò che ha fornito un ambiente adatto agli islamisti. Più le persone sono private della politica, maggiore è il ruolo politico svolto dalla religione. La rivoluzione siriana è stata precisamente il raduno volontario di persone negli spazi pubblici e il parlare di affari pubblici. Cioè, una lotta per prendere il possesso della politica.
Secondo lei, era in qualche modo prevedibile la reazione del governo siriano rispetto alle pacifiche manifestazioni?
Il regime ha affrontato la rivoluzione con la guerra sin dall’inizio. Non ha mai fatto concessioni politiche significative, né ha accettato la legittimità dell’esistenza di un’opposizione politica, per quanto moderata. La sua ricerca della sicurezza assoluta e la permanenza al potere per sempre, secondo un vecchio slogan di Assad, chiude la porta alla politica e apre la porta allo sterminio. Ma in realtà, la nostra immaginazione non poteva spingersi a quello che è successo, come la progettazione della morte sistematica, studiata nei quartieri generali della Sicurezza, i massacri diffusi, i barili bomba e i massacri chimici. Nessuno poteva prevedere che il regime stesso cedesse in qualche modo il Paese all’Iran e alla Russia in cambio di protezione, né che il 30% dei siriani finisse come rifugiato in Paesi vicini e lontani. Tutto questo era davvero impossibile da immaginare.
Che cosa rimane oggi degli ideali della rivoluzione tra i siriani rimasti in patria e quelli della diaspora?
Ciò che resta è quello che è stato principalmente il motore della rivoluzione: la volontà del popolo di essere sovrano del Paese e di viverlo dignitosamente. La questione siriana è come la questione palestinese, è mossa dall’autodeterminazione, ed è per questo che i rivoluzionari siriani sono al fianco del popolo palestinese nella sua attuale crisi. La coraggiosa protesta contro le condizioni brutali resta viva nella memoria e nel cuore di milioni di persone, e resta il ricordo di coloro che sono cadute e caduti lungo il sentiero, coi loro nomi, le loro storie e i loro volti.
Recentemente il suo libro La rivoluzione impossibile è stato tradotto in italiano. Partiamo dal titolo, perché impossibile?
Ciò che significa è che non ci si aspettava che i siriani si ribellassero contro il regime che aveva già ucciso decine di migliaia di cittadini nei primi anni Ottanta del secolo precedente e arrestato e torturato altre migliaia di persone, in un momento in cui la popolazione della Siria contava appena dieci milioni di individui. La società siriana è stata paralizzata dal terrore di Assad per quasi tre decenni, fino alla primavera rivoluzionaria del 2011. La rivoluzione siriana è quindi la rivoluzione impossibile, che è stata realizzata. C’è un’altra cosa impossibile accaduta in Siria: la distruzione della società siriana, l’uccisione di oltre mezzo milione di persone, lo sfollamento di sei milioni e mezzo di siriani.
Era impossibile anche immaginare che il Paese cadesse sotto cinque occupazioni, iraniana, russa, americana e turca, oltre a quella, di più vecchia data, israeliana. Nessuno immaginava, inoltre, l’emergere di “creature selvagge” come Isis e gruppi salafiti islamici. Ciò nonostante, il regime è sopravvissuto a tutto questo, con la protezione di potenze straniere. Tutto questo era impossibile da immaginare, ma è esattamente quello che è successo. Se quindi era impossibile prevedere la rivoluzione, è altrettanto impossibile distruggerla e questo lascia due insegnamenti.
Il primo è che di fronte a una realtà impossibile, bisogna spingersi e cercare altre soluzioni, guardare oltre ogni limite. Il secondo è che la stessa politica deve spingersi a cercare soluzioni alternative, innovative, che tengano conto dei significati della rivoluzione siriana. I giochi politici russi ad Astana, Ginevra e in altre sedi, hanno sinora cercato solo di riabilitare il regime nonostante il genocidio, aggirando la necessità di una soluzione etica e giusta, basata su una pace sostenibile, in modo da prevenire che una grande guerra esploda a ogni nuova generazione.
Quanti sono e quali sono i nemici della giustizia, della pace e della democrazia in Siria?
Molti e potenti. Il primo è il regime dinastico e i suoi protettori, la Russia e l’Iran; in secondo luogo, ci sono le potenze straniere che occupano le terre siriane, come gli Usa e la Turchia, e prima di tutto Israele, che si comporta come una potenza coloniale con armi nucleari. In terzo luogo, gli islamisti, in particolare i salafiti, che esprimono il rifiuto della democrazia e il rifiuto di garantire giustizia e pace con il loro dominio.
Alla fine, abbiamo una triade di forze di discriminazione e tirannia, le cui interazioni sono modellate da quello che chiamo ordine mediorientale: i Paesi della tirannia che governano nei nostri Paesi, i poteri di controllo internazionale, inclusa la Russia, e l’assolutismo islamico, quelli che vogliono stabilire un’autorità religiosa senza restrizioni. Pertanto, la nostra lotta è complessa e radicale e non abbiamo partner tra le altre nazioni (a differenza del regime e degli islamisti). Siamo il proletariato politico del mondo e la nostra emancipazione è il più grande servizio alla lotta per la libertà e la pace nel mondo stesso.
Secondo lei, perché la tragedia siriana non ha scaldato i cuori dell’opinione pubblica mondiale? Perché la comunità internazionale ha permesso questo genocidio?
La struttura del mondo oggi è simile a quella della Siria sotto il regime di Assad: senza un’alternativa. È come se il mondo ruotasse su se stesso, in un presente eterno e stagnante e mancasse di una visione o di un progetto per rinnovare la sua giovinezza. Il mondo di oggi è conservatore, non un paladino della libertà e dell’uguaglianza, anche se le forze che lo influenzano amano dare questa impressione di se stesse. La democrazia è in crisi in Occidente e altrove, e la destra nazionalista e populista è in crescita. Questo mondo che ha adottato la guerra contro il terrorismo come una grande narrativa e ha identificato il terrorismo come il principale male politico, non riconosce i genocidi, al contrario, copre con la presunta lotta contro il terrorismo, i genocidi stessi e crea personaggi del calibro di Bashar al Assad, Putin e il regime degli ayatollah a Teheran quali partner di questa guerra senza fine, che mette sempre l’importanza delle questioni di sicurezza al di sopra delle questioni della politica e del diritto.
Che contributo hanno dato e continuano a dare gli intellettuali siriani nel raccontare la tragedia delle vittime?
L’orrore e la complessità della questione siriana hanno reso il ruolo degli intellettuali meno visibile di quanto meritasse. A mio avviso è un ruolo sempre più importante, che non si limita a narrare la tragedia delle vittime, ma lavora per rendere il mondo di oggi più consapevole e responsabile. Non stiamo presentando una questione davanti a un giusto tribunale internazionale, con lo scopo di perseverare nel presentare il racconto delle vittime. Questo tribunale non esiste, né sotto forma di opinione pubblica internazionale, né sotto forma di valori universali condivisi. Vedo nella questione siriana una parabola che aiuta a riconsiderare il mondo di oggi, proprio grazie al suo grande potenziale rivoluzionario. Penso che siamo in una posizione adatta per criticare il mondo attuale e lavorare per cambiare il suo sistema.
In Siria e nel Medio Oriente, che è la prigione dei popoli contemporanei, i popoli vogliono rovesciare i regimi, e ciò è stato impedito dalla struttura dell’ordine mondiale. Questo sistema, quindi, deve essere contrastato dalla lotta rivoluzionaria. D’altra parte, la rivoluzione siriana ha prodotto i suoi intellettuali e ha rinnovato le prospettive di coloro che erano precedentemente attivi. La base sociale del pensiero, della scrittura e del dibattito si è notevolmente ampliata, il che significa che la rivoluzione democratizza il pensiero e il dibattito, almeno tra i siriani della diaspora. Questo è importante e può avere un futuro.
La tragedia siriana ha due dimensioni: una pubblica e una privata. Le lettere che lei ha scritto a sua moglie Samira hanno aiutato molte persone a capire cosa abbiano dovuto subire i siriani per anni. Come siriani, possiamo sperare in qualcosa di diverso dall’empatia?
Collaborare. Lavorare insieme. E pensare insieme. Questo è ciò che noi ci aspettiamo dai giusti nel mondo. Penso che il modello di solidarietà come forma di attività politica che si è diffuso in Occidente dagli anni Novanta non sia né progressista, né liberale. Persino tra gli attivisti gli equilibri non sono perfetti nel trattare le questioni legate a Paesi in difficoltà e si finisce per favorire certe cause e trascurarne altre. Abbiamo bisogno di una nuova solidarietà basata sull’uguaglianza, che prenda coscienza del fatto che siamo in una crisi globale, anche se in proporzioni diverse, che c’è un bisogno collettivo di un nuovo mondo liberale, in cui le donne non occupino la posizione di una minoranza permanente al suo interno, in cui il pianeta non venga trattato con la logica dell’espropriazione o dell’estrazione capitalista, e la sicurezza di alcuni non venga considerata fondamentale, al di sopra della sicurezza degli altri, così come le vite di alcuni non vengano considerate più importanti rispetto alle vite di altri.
Il nome di Samira e la sua storia di forza morale sono ciò che spinge molti ad andare oltre a una mera vicinanza morale, e all’empatia, puntando a contribuire all’emergere di una nuova umanità che non viva in una guerra permanente con se stessa o con l’ambiente. Questo è, in ogni caso, il mio impegno per lei, che è la mia grande assente. E per il suo partner in assenza: la Siria.
Ph. Moschea degli Omayyadi di Aleppo © Anas Badawi / Copyleft
Yassin al-Haj Saleh
Scrittore e intellettuale siriano