di Igiaba Scego. Giornalista e scrittrice.
Un ragazzo, Seid Visin, si toglie la vita. Ha una ventina d’anni. Un futuro davanti. Ma la sofferenza è così grande che arriva, non sappiamo se per una scelta meditata o improvvisa, la fatale decisione di uccidersi. Sono tante le storie come la sua. Tanta la sofferenza che ragazzi e ragazze vivono ogni giorno per i motivi più svariati. Sofferenza che, in un questa pandemia, è purtroppo anche aumentata.
La storia di Seid Visin, promessa del calcio professionista, fa parte di qualcosa che difficilmente possiamo spiegare con termini da cronaca giornalistica. Quello che ha attraversato nella sua giovane vita è qualcosa che sa solo lui e forse la potrà comprendere, con il tempo, anche chi lo amava. Un suicidio o un tentato suicidio è sempre inspiegabile per chi è vicino alla persona che decide di compiere questo fatale passo. Davanti a qualcosa di così delicato forse dovremmo stare, noi che non ne sappiamo nulla, in silenzio. Purtroppo così non è stato nel caso di Seid Visin. Prima di continuare, però, mi scuso con i genitori, i parenti, le amiche e amici di Seid Visin perché sto nominando il loro caro nell’ennesimo articolo che apparirà su una rivista.
Ma non voglio né speculare né fare ipotesi su come il vostro amato Seid è arrivato alla sua decisione.
Ma sto scrivendo questo pezzo, difficile da scrivere per parlare a una società italiana, anzi un progressismo italiano, che ha letteralmente – come ha ben detto la scrittrice italo-ghanese Djarah Kan su L’Espresso – “cannibalizzato” Seid. Nella mia vita ho sempre trovato più facile lottare contro il razzismo esplicito, contro la discriminazione manifesta, contro chi urla «Prima gli italiani!», «Tornatevene a casa vostra!» e via discorrendo. È qualcosa di tremendo, ma facile da contrastare.
Invece ho sempre trovato più complicato avere a che fare con chi a parole ti accetta, ti dice che è dalla parte di una società multietnica, ma poi ti tratta con paternalismo. E ti inferiorizza. Un corpo da usare per i propri scopi… scopi non sempre cristallini. E così è successo al mondo progressista appena saputo della morte di Seid. Un ragazzo di cui nessuno conosceva i tormenti e le vicende, è stato sbattuto in prima pagina come un martire del razzismo. Usato da associazioni, politici, intellettuali per far vedere alla propria bolla di riferimento che si stava dalla parte giusta, senza tanti sforzi, giusto con video e una manciata di tweet.
Un post vecchio di anni che Seid aveva scritto contro il razzismo che come ragazzo afrodiscendente lo colpiva, spacciato per lettera d’addio. La sua intera esistenza trasformata in santino per le masse radical chic.
L’atteggiamento del progressismo davanti a questa storia mi ha pietrificato. Una giovane vita, quella di Seid, è stata inserita in uno schemino precostituito e in fondo rassicurante. Da un bel po’ di tempo penso che il progressismo italiano (inteso come corpus politico, sociale, intellettuale, mediatico) davanti ai corpi transculturali delle giovani generazioni (autoctone o migranti) stia fallendo la sua mission.
Un riflesso è stato notare con un certo sgomento che la tematica della cittadinanza, erroneamente chiamata ius soli, è stata agitata come bandierina identitaria dopo la morte di Seid per far vedere «Come siamo fighi! Come siamo avanti!». Ecco, fare così è stato un puro atto muscolare, che non costava nulla al progressismo fare. Ma è costato alla società.
Gli orizzonti legislativi della legge sono lontani (ma non impossibili) in questa legislatura, ma un progressismo intanto potrebbe proporre di aprire le porte dei partiti, dei giornali, ecc. ai corpi transculturali creando intanto rappresentazione; e non una tantum, ma strutturale all’interno dei propri organi politici e/o mediatici.
La politica come i media ne troverebbero immediato giovamento, serve pluralità per capire il mondo. Ecco per me quello potrebbe essere stato un atto politico vero; reale.
Molto più vero delle cittadinanze onorarie (siamo stufi di cittadinanze onorarie! Abbiamo già dato) che qualcuno ha proposto dopo la morte di Seid nel flusso di parole social. Ma appunto è troppo reale per un progressismo chiuso e autoreferenziale.
Un progressismo che ti inserisce in uno schemino perché della tua complessità non sa che farne. C’è molta strada da fare in Italia per arrivare ad un progressismo degno del contemporaneo che stiamo vivendo. Molta strada.

Igiaba Scego
Giornalista e scrittrice