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Senza legami stabili

di Stefano Allievi

di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Eravamo abituati a pensarci all’interno di storie di lungo periodo. L’amore di una vita, il lavoro stabile, la passione che ci accompagna – e con essi, una memoria storica sedimentata. Ma come sarebbe il mondo se…

Eravamo abituati a pensarci all’interno di storie di lungo periodo. L’amore di una vita, il lavoro stabile, la passione che ci accompagna – e con essi, una memoria storica sedimentata. Ma cosa succederebbe se le cose cambiassero, se vivessimo dentro percorsi meno lineari, rapporti più instabili, percorsi interrotti, maggiori discontinuità? E succederà?

È già successo, in realtà. Prendiamo la relazione per eccellenza, quella che dà il nome alle altre, e ne è l’idealtipo: l’amore di lungo periodo, e con esso la sua istituzionalizzazione – il matrimonio. Significativa, se non altro, perché è l’unica in cui ci si promette reciprocamente – o si lascia credere – che durerà indefinitamente (non così nei rapporti professionali, nell’appartenenza a una tribù metropolitana, nella pratica sportiva, e nemmeno nelle amicizie, o nelle passioni intellettuali).

Nel 1970, anno dell’introduzione della legge sul divorzio, il 98% dei matrimoni si celebrava religiosamente, con una formula che esplicita una promessa di fedeltà che solo la morte può spezzare. Dal 2018 i matrimoni religiosi calano per la prima volta al di sotto di quelli civili, nei quali la formula della promessa di durata non è esplicitata. E ogni anno il gap aumenta, con grosse differenze territoriali: nel Centro-Nord, che è anche l’area più abitata del Paese, i matrimoni religiosi sono circa un terzo, al Sud le percentuali si invertono. Senza contare che questo avviene nel contesto di un calo complessivo della nuzialità (il più basso d’Europa) e un aumento delle coppie e delle convivenze di fatto, in cui non c’è alcun elemento contrattuale esplicitato.

Certo, c’è di mezzo un massiccio processo di secolarizzazione, e la diffusione di forme di religiosità non (o meno) istituzionalizzata. Ma anche una visibile ritrosia ad impegnarsi in percorsi di lungo termine, o addirittura di lunghezza indefinita. Lo stesso processo che è avvenuto nel mondo del lavoro, dove la linearità e il posto fisso hanno lasciato spazio ad un’ampia diversificazione di percorsi, un alternarsi di progetti, la possibilità (o l’obbligo, ma non va sottovalutato l’approccio culturale positivo rispetto a questa tendenza) di cambiare.

L’innovazione tecnologica, il rapido succedersi delle mode, hanno del resto introdotto questo abito mentale nella nostra vita quotidiana, negli oggetti che acquistiamo e nella loro più rapida obsolescenza (eventualmente anche programmata – ma in complicità con una nostra già esistente propensione a cambiare), nelle nostre scelte, nei nostri hobby, negli sport che pratichiamo, nelle nostre opzioni valoriali, nelle opinioni politiche (non a caso cresce la percentuale di persone che sceglie chi votare direttamente in cabina elettorale, o comunque all’ultimo, e diminuisce la membership partitica, che si è fatta peraltro infedele – così come si è abbreviata la durata delle leadership e degli stessi contenitori politici): potevano rimanere escluse le nostre relazioni?

A questo aggiungiamo la mobilità sociale, la mobilità professionale e ancor più quella geografica, che ci spingono ad abbandonare e ri-creare nuove forme di relazioni, magari intense e coinvolgenti ma stabili solo finché serve o finché piace, fino al prossimo spostamento e al prossimo radicamento. In fine, va tenuto presente il ruolo che in tutto questo ha il progressivo aumento della durata della vita. Che da un lato spinge in avanti nel tempo biografico alcune esperienze: prolungamento dell’obbligo scolastico e degli anni dedicati all’istruzione (finché non si capirà che deve diventare lifelong learning e intrecciarsi con l’attività professionale e altri tipi di esperienze, anziché costituire fasi successive e separate), e innalzamento dell’età del primo matrimonio (che ha raggiunto nel Centro-Nord i 37 anni per gli uomini e i 34 per le donne) che a sua volta spinge in alto quella della riproduzione.

Dall’altro pone un interrogativo (che spesso rimane nel non detto, ma si insinua sottilmente nel nostro vissuto) sulla desiderabilità stessa di mantenere – in una vita che si avvia ad avere una lunghezza sempre maggiore – lo/la stesso/a partner, la stessa religione, lo stesso mestiere, la stessa meta per le vacanze, ecc.

Non è la fine dei rapporti stabili e di lungo periodo, delle scelte definitive, delle fedeltà inscalfibili: che continueranno ad esistere per una quota di popolazione, anche come elemento di desiderabilità sociale e culturale. Ma l’inizio della constatazione che si potrà scegliere tra l’una e l’altra cosa, e al limite praticare l’uno e l’altra in fasi diverse della propria vita. La constatazione – che è un fatto – che non c’è più un modello sociale unico da perseguire.

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Stefano Allievi

Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

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