di Giorgio Gomel. Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace.
Il governo formatosi in Israele è una coalizione di otto partiti aggregatisi con lo scopo di porre fine alla disfunzione paralizzante prodotta dal susseguirsi negli ultimi due anni di elezioni con governi di minoranza retti al vertice da Benjamin Netanyahu, nonostante le imputazioni che gravano su di lui per corruzione e abuso di fiducia e l’imminenza di un processo.
Il primum movens è stato quindi una volontà di cambiamento che riflette una pulsione imprecisa e contraddittoria, ma dominante nel Paese di cambiare rispetto a un passato e un presente segnati dalla paralisi politica. Sarà peraltro difficile governare, in una coalizione che conta 61 voti su 120 e rappresenta voci, indirizzi, ideali divergenti. La destra resta egemone: 56 parlamentari su 120 appartengono a partiti di destra (incluso il Likud che con 30 deputati è, pur all’opposizione, il partito ampiamente maggioritario nel Paese), 72 se ai partiti della destra sommiamo i partiti religiosi unitisi in una “santa alleanza” con il Likud. Ma un sistema di veti reciproci fra i due premier, sancito nel patto di governo che contempla una rotazione al vertice dopo due anni – Bennett della destra nazional-religiosa, vicina ideologicamente al movimento dei coloni, Lapid del centro laico-moderato – renderà ardue decisioni radicali. In particolare sulla questione del rapporto con i palestinesi prevarrà l’ambiguità de iure e l’annessione de facto di parti dei Territori occupati che ha ispirato atti dei governi israeliani da tempo.
La convinzione prevalente nel Paese resta quella che il conflitto con i palestinesi possa essere “gestito”, che lo status quo sia sostenibile, che i palestinesi sconfitti siano rassegnati a una condizione di minorità e soggezione. Non ci saranno forse nuove confische di terra, demolizioni di case e attività economiche, espansione degli insediamenti israeliani nella “zona C” della Cisgiordania sotto occupazione israeliana; forse qualche tentativo di alleviare le condizioni materiali di vita dei palestinesi nelle “zone A” e “B” sotto giurisdizione dell’Autorità palestinese. Non molto di più.
Dei 27 ministri che compongono il nuovo governo, 11 possono definirsi “di centro”, 10 appartengono alla destra, 6 alla sinistra. Quest’ultima, formata dal Meretz – un partito che si oppone all’occupazione, difende i diritti civili, combatte le disuguaglianze – e dal partito laburista, era esclusa dai governi ormai da venti anni.
Per la prima volta nella storia del Paese il Ra’am, un partito arabo – anzi “islamista” in senso dottrinario, legato alla Fratellanza musulmana e fortemente conservatore in materia di diritti civili e sociali – è partecipe della coalizione: il suo leader Mansur Abbas sarà Viceministro con delega nell’ufficio del Primo ministro. Un tabù rimosso che riflette l’integrazione in atto della minoranza araba e ne legittima il peso politico in un frangente segnato dall’esplodere di violenze interetniche fra arabi ed ebrei.
La minoranza araba (circa il 20 % della popolazione) so!re di discriminazioni sul mercato del lavoro, nell’offerta di istruzione, nella disponibilità di terreni per abitazioni. Gli accordi firmati da Abbas nel suggellare il suo ingresso nel governo insistono perciò su un vasto programma di investimenti nelle infrastrutture, nell’edilizia e contro il crimine organizzato che inquina larghi strati della comunità araba.
I partiti di destra occupano dicasteri importanti, quali gli Interni, la Giustizia, le Finanze, la questione di Gerusalemme e gli affari religiosi.
I due partiti religiosi sono peraltro esclusi dalla coalizione: una novità importante che potrebbe preludere a mutamenti nel rapporto fra religione e stato, contenendo il potere coercitivo delle componenti ortodosse della società: forse non una norma di legge che introduca il matrimonio civile nel Paese, ma prassi più accomodanti circa le conversioni all’ebraismo, i diritti degli omosessuali in materia di adozioni e maternità “surrogata”, l’accordo circa uno spazio egualitario di preghiera per uomini e donne al Muro del Pianto a Gerusalemme, negoziato e poi disatteso dai governi di Netanyahu.

Giorgio Gomel
Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace