A Roma il primo patto di collaborazione tra un Municipio e un ex centro sociale - Confronti
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A Roma il primo patto di collaborazione tra un Municipio e un ex centro sociale

by Claudia De Martino

di Claudia De Martino, Cultrice presso la cattedra Political Thought for Colonization and Decolonization al dipartimento Coris della Sapienza.

I Centri sociali autogestiti fanno parte del tessuto urbano delle principali città italiane, ma soprattutto della loro storia di fine ‘900. Nessuna grande città è stata completamente esente dal movimento spontaneo di riappropriazione degli spazi urbani in disuso che, particolarmente tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ha portato gruppi di giovani politicizzati ma apartitici, contrari alle privatizzazioni ed alla svendita dei beni pubblici ed allo smantellamento progressivo del welfare state, ad affermare la propria presenza fisica sul territorio come presidio mutualistico contro le politiche neoliberiste attuate dai governi. 

I centri sociali – fossero essi Csa (Centri sociali autogestiti), Csoa (Centri sociali occupati e autogestiti) o Cpo (Centri popolari autogestiti) di ispirazione anarchica o di sinistra, e persino le Onc (Occupazioni non conformi) o Osa (Occupazioni a scopo abitativo) di ispirazione nazionalista o fascista – hanno rappresentato un segno culturale urbano distintivo,  indice della vitalità di gruppi studenteschi e comunità che, pur radicati nella dimensione localistica di un quartiere, si aprivano e connettevano idealmente alle lotte in corso nel mondo, partecipando a tutte le manifestazioni di interesse artistico, musicale e politico nazionale ed internazionale, dibattendone eventi e guerre, costruendo campagne di protesta, ovvero ponendosi come delle avanguardie di sperimentazione artistica ma anche politica, capaci di brevettare nuove forme dello stare insieme. 

Dal 2000 in poi, tuttavia, questa spinta creativa sembra essersi esaurita, e non perché siano diminuiti gli attacchi ai beni pubblici, i tentativi di sdemanializzazione del patrimonio immobiliare dello Stato o si sia indebolito l’orientamento economico neoliberista complessivo delle classi di governo, ma perché i vecchi militanti hanno smarrito il senso globale della lotta e si sono trasformati in attivisti mobilitati per singole cause, da molti giudicate come autoreferenziali (ad es. la battaglia per le “droghe leggere”) o estremamente localistiche, associabili all’acronimo Nimby (Not In My Back Yard – letteralmente “non nel mio cortile”).

Molti centri sociali si sono allora numericamente svuotati, perdendo lo slancio politico iniziale che li aveva caratterizzati, ovvero quella doppia identità di laboratorio di idee e pratiche per una società diversa e protesta contro un ordine economico mondiale (e nazionale e locale) che schiacciava ogni luogo e relazione umana sulla logica del profitto. Dei 26 centri sociali che contava la città metropolitana di Roma fino al 2008, ne sono sopravvissuti una manciata, mentre gli altri si sono trasformati in spazi per attività ricettive o ricreative gestite più o meno velatamente a scopo di lucro. Tuttavia, non si è stemperato del tutto l’interesse pubblico per la questione dei beni comuni: risorse e spazi che esprimono un altro senso di appartenenza urbana e che prospettano forme cooperativistiche di aggregazione. 

A partire dal 2007 l’istituzionalizzazione della Commissione Rodotà presso il Ministero di Grazia e Giustizia ha puntato sulla modifica del Codice civile in materia di beni pubblici e richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica su quella terza categoria di beni tra pubblici e privati – i beni comuni – oscurata nella giurisprudenza. Si tratta infatti di un terzo spazio: non circoscrivibile a forme di gestione né privata né pubblica, ma comunitaria, ovvero locale, autogestita e autoregolata. Si tratta, come ha intuito il Premio Nobel per l’Economia Elinor Ostrom (2009), di definire beni che per loro natura non rispondono alla logica della massimizzazione dell’interesse del singolo (beni privati) e alla teoria della scelta razionale (su cui si fonda l’economia liberista), ma nemmeno a quella di erogazione di servizi universali da parte dalle amministrazioni centrali, e quindi dallo Stato in tutte le sue amministrazioni.

Olstrom ebbe il merito di criticare la “tragedia dei beni comuni” (Hardin, 1968), ovvero quella teoria economica che sosteneva che, qualora il titolo di proprietà di un determinato bene non fosse chiaro, i costi del suo sfruttamento sarebbero stati evasi dalla maggior parte degli utenti (fenomeno del “free rider”). Ella sostenne, al contrario, che le persone sono attori sociali complessi che non rispondono solo all’interesse e a criteri di massimizzazione del profitto individuale, ma possono intestarsi volontariamente “pezzi di comunità”, ovvero la responsabilità dell’ambiente e della sfera comune che abitano, elaborando soluzioni dirette ai propri problemi e assumendo regole e scelte al livello di maggiore prossimità possibile, monitorando l’implementazione di tali decisioni attraverso meccanismi di azione collettiva. L’iniziativa Rodotà sfociò nell’indizione di un referendum sull’acqua col quale, il 12 giugno del 2011, 26 milioni di italiani espressero la loro volontà che essa restasse un bene pubblico: volontà purtroppo rimasta sulla carta.

La delega al Governo per la riforma del Codice civile sui beni comuni avviata dall’iniziativa Rodotà, come evidenziato dai militanti dell’ex asilo Filangieri di Napoli, aveva il limite di distinguere tra beni comuni che esprimessero «utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali» (acqua, parchi, etc.) e «beni pubblici sociali», «destinati a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona», categoria in cui sarebbero rientrati a pieno titolo i centri sociali. Il 2011, l’anno in cui il Forum dell’Acqua Pubblica e la relativa campagna referendaria riaccesero i riflettori sulle esternalità negative delle privatizzazioni di servizi pubblici essenziali, i movimenti sociali urbani iniziarono a porre un altro grande tema, quello dei beni comuni sociali, catalizzatori di bisogni collettivi orientati ad un diverso uso del territorio.

Il febbraio 2011 fu anche il momento in cui un collettivo ribattezzato Lab! Puzzle avviò un esperimento di mutualismo e welfare dal basso occupando gli ultimi tre piani di un edificio in via Monte Meta 21 al Tufello, ex sede del IV Municipio abbandonata e lasciata in rovina dal 2008. Tale collettivo realizzò nello stabile una serie di progetti sociali che ancora oggi includono un co-housing, una scuola di italiano, una scuola popolare per il doposcuola di allievi di tutte le scuole di ogni ordine e grado del quartiere, un’officina di recupero e riuso di oggetti, un’aula studio, uno sportello legale e uno spazio di coworking. Tutte le attività si ispirano al principio del mutualismo e non dell’assistenzialismo: si viene per ricevere un servizio o fruire di uno spazio, ma allo stesso tempo si sottoscrive un patto implicito per cui si diventa parte di una comunità al cui sviluppo occorre contribuire, ricambiando con il proprio impegno e restituendo qualcosa indietro.

Pur radicandosi nella vita quotidiana del quartiere Monte Sacro/Tufello e costituendo un valore sociale oggettivo, per oltre dieci anni il Lab! Puzzle ha continuato a vivere ai margini della legalità e a rischio sgombero. Su questo contesto di precarietà giuridica è intervenuta l’iniziativa legislativa della Regione Lazio che ha condotto all’approvazione a maggioranza del Consiglio regionale del disegno di legge n.128/2019 sulla Promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni. Per beni comuni si intendono qui «i beni, materiali e immateriali, funzionali al benessere individuale e collettivo e agli interessi delle generazioni future e per i quali le amministrazioni e i cittadini si attivano, ai sensi dell’articolo 118 comma 4 della Costituzione, per garantirne la fruizione collettiva e condividere la responsabilità della cura, rigenerazione e gestione in forma condivisa degli stessi». La legge prevede la possibilità di stipulare patti di collaborazione tra amministrazioni e cittadini attivi sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale, secondo cui le attività promosse dagli enti locali beneficiari siano monitorate dall’assessorato regionale competente in materia di beni locali, con la possibilità per le amministrazioni locali di attribuire loro vantaggi economici e altre forme di sostegno, ma anche di valutarne pratiche ed impatto. Tra i possibili scopi sociali della legge sui beni comuni rientrano la manutenzione delle aree verdi, la gestione di spazi e beni immateriali, l’erogazione di servizi sociali alla comunità.

Su questa base giuridica si è mossa la Giunta Caudo al III Municipio per stipulare con il collettivo Lab! Puzzle, confluito nell’associazione Meta21 Aps, il primo patto di collaborazione a Roma in applicazione locale della Legge regionale sui beni comuni, tesa a sanare la precarietà giuridica e riconoscere il valore sociale dei centri sociali attivi sul territorio, poi approvato dal Consiglio municipale. Il Presidente del Municipio Giovanni Caudo sì è così espresso in merito: «Il progetto sociale, rappresentato dalle attività svolte nell’edificio di via Monte Meta 21, ha costituito negli anni, per centinaia di persone, una forma importante di mutualismo e welfare dal basso, un aiuto ed una risposta concreta a bisogni emergenti, espressione di vecchie e nuove vulnerabilità sociali. Di fatto costituisce, nel territorio, un esempio di rigenerazione di un bene comune, una concreta esperienza di partecipazione e uno strumento per la costruzione di legami di comunità». Il Municipio ha così definito di imprescindibile interesse pubblico il progetto avviato dieci anni prima dal centro sociale. 

L’invito è quello di considerare gli ex centri sociali come un potenziale luogo di aggregazione in ogni quartiere e di mobilitarsi per rendere questi spazi condivisi da un numero crescente di persone orfane di iniziative sociali sui loro rispettivi territori o alla ricerca di servizi a cui non possono o non vogliono ricorrere nel settore privato. Attraverso servizi e iniziative rivolte alla cittadinanza ed ai loro bisogni, i nuovi centri sociali possono rivendicare una piena cittadinanza nel contesto urbano, affermarsi come centri nevralgici di produzione sociale e culturale al servizio del bene pubblico, emancipandosi dalla precarietà giuridica attraverso i patti di collaborazione. Tuttavia, essi non devono incorrere nell’errore di dimenticare del tutto la loro origine di centri di mobilitazione permanente, non necessariamente antagonisti ma critici del potere costituito, incluso quello che li protegge e sostiene. Gli ex centri sociali devono accettare la sfida di evolvere verso comunità allargate, meno ideologicamente caratterizzate, maggiormente aperte e trasparenti nella gestione di progetti, servizi e flussi economici, più flessibili nelle regole che ne definiscono l’appartenenza. Nondimeno non possono trascurare la loro funzione storica di rimanere un laboratorio di progettazione di un mondo diverso, che non comporti necessariamente affrontare le istituzioni con cariche e manifestazioni violente come le vecchie occupazioni degli anni ’80 e ‘90, ma porsi come una “zona franca” indipendente dai poteri forti, del territorio come della politica.

Nel maggio del 2019 Matteo Salvini, in permanente campagna elettorale, aveva affermato su un palco di un comizio a Pavia che la Lega avrebbe «chiuso tutti i centri sociali, (la cui) utilità sociale è pari a quella dei campi Rom». Oggi il Centro-Sinistra ha dimostrato di saper cogliere, con una certa lungimiranza, l’eredità positiva di un movimento sociale spontaneo che ha saputo creare comunità e cultura a dispetto della disaffezione crescente della cittadinanza verso l’impegno civile. Valorizzando l’esperienza dei centri sociali, i partiti di centro-sinistra hanno voluto mandare un segnale più generale di fiducia nella possibilità che il futuro politico delle città si giochi sulle capacità autonome dei cittadini di rispondere ai propri bisogni locali costituendosi in gruppi, associazioni e comunità autogestite senza ricorrere verticisticamente ai poteri pubblici e alle autorità. 

Hanno dimostrato di credere nella sussidiarietà attiva, che significa portare il livello decisionale e gestionale al livello di prossimità più vicino ai cittadini, destinatari finali dell’intervento pubblico. La sussidiarietà non significa rinchiudersi nel localismo, ma capacità di costruire sistemi complessi che articolino piramidalmente tutti i livelli decisionali fino all’apice delle istituzioni dell’Unione Europea, portandoli in costante comunicazione gli uni con gli altri. Significa, quindi, approfondire e ampliare la democrazia, la cui realizzazione non è mai una conquista definitiva, ma una ricerca in continuo progresso verso un ideale di difficile realizzazione. 

I patti di collaborazione sono una buona notizia per la vitalità della nostra democrazia: la sfida adesso è rendere l’accesso e la valorizzazione dei beni pubblici non esperienze marginali ristrette a un numero esiguo di persone, ma delle assemblee permanenti a cui si rivolga un numero sempre più ampio di cittadini e di giovani, inclusi quelli che non hanno mai conosciuto e a cui non ha mai parlato la realtà degli ex centri sociali.

Ph.© https://www.facebook.com/puzzle.welfareinprogress

Claudia De Martino

Claudia De Martino

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