di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore
A Kandahar e dintorni i taliban sono rimasti a lungo nei lunghi venti anni di “trasformazione” del Paese. Di quella provincia hanno sempre avuto le chiavi di casa. Non solo per le ragioni affettive che li legano al mullah Omar originario dei luoghi, ma per una logistica che li ha visti entrare e uscire lungo la direttrice per Quetta, città della loro shura [consiglio, assemblea] che amano più di Kabul.
Nella capitale afghana erano giunti per la conquista del potere, in un Paese liberato dall’occupazione sovietica e caduto in un lacerante conflitto etnico, tribale, religioso, clanistico, affarista. Qui avevano combattuto i peggiori Signori della guerra locali, abilissimi nella resistenza a un’Armata Rossa tutt’altro che motivata, e comunque messa in ginocchio dalla sagacia di certi guerriglieri dipinti come “supereroi”.
Prendiamo Ahmad Massud, detto “il leone del Panshir”. Era amato non solo dai seguaci tajiki, la stampa internazionale lo carezzava con panegirici, interviste alle quali si prestava sfoderando un impeccabile francese. Il glamour gli fu fatale. Nel settembre 2001 due kamikaze, spacciatisi per cameramen di un’emittente marocchina, lo fecero saltare per aria e s’immolarono.
L’anno seguente il comandante, considerato un eroe nazionale, fu insignito d’un postumo premio Nobel per la pace. Un passo che rientra perfettamente nella manipolazione della realtà afghana che, se con gli intrighi del “Grande gioco” imperialista ottocentesco era già cosa antica, con le recenti occupazioni è diventato parossistico.
I mujaheddin che liberavano il suolo patrio dagli improvvidi russi, avevano gli arsenali colmi di missili statunitensi Stinger con cui abbattevano gli elicotteri d’assalto di Mosca, e le casse colme di petrodollari sauditi. Dopo la ritirata russa nel 1989 per tre anni consecutivi i tajiki di Massud e Rabbani, i pashtun di Hekmatyar e Sayyaf, gli hazara di Mazari e Mohaqiq, gli uzbeki di Dostum – e poi Fahim, Khalili – non trovando un accordo per guidare il Paese pensarono di risolvere la questione sparandosi addosso.
Intrecciavano alleanze di comodo che potevano durare mesi o lo spazio d’un giorno. E vomitavano morte. Da alcune alture attorno a Kabul martellavano con l’artiglieria l’altopiano sottostante dove viveva la popolazione. In quattro anni fecero ottantamila morti, forse più. E da quel 1994 un mullah di Kandahar, di nome Omar, raccolse gli studenti coranici trasformati in combattenti per una battaglia contro altri islamici, gli warlord, che continuavano a mantenere la nazione prostrata ai loro piedi.
Ne massacravano i figli, riempivano di lutti l’esistenza quotidiana. Omar e i suoi aggregarono cento, mille, quindi migliaia di giovani e due anni dopo cinsero d’assedio la capitale. Venivano visti da molti, non da tutti, come i messaggeri d’una prossima stabilità.
Durò pochissimo, anzi niente. Poiché la shari’a talebana era letta con lenti non dissimili da quelle dei fondamentalisti che scalzavano. Omar non era diverso da Hekmatyar, il leader dell’Hezb-i Islami [uno dei partiti islamici] che s’era conquistato il titolo di “macellaio di Kabul”. Lo stadio e altre spianate della capitale divennero i luoghi di esecuzioni pubbliche, rivolte si badi bene non ai Signori della Guerra che intanto erano riparati in Paesi limitrofi, su cui spiccano Pakistan e Iran, sempre desiderosi di decidere d’orientare l’Afghanistan verso i propri orizzonti.
Le fucilazioni colpivano cittadini pizzicati dall’istituita “polizia religiosa” e rei di non seguire indirizzi morali consoni alla legge coranica. Ovviamente le donne finivano in prima fila nella repressione: si vietava che uscissero di casa senza un uomo di famiglia al seguito, s’impediva loro di studiare e lavorare. Le si lapidava al sospetto di presunti adulteri. L’onta delle lapidazioni pubbliche segnò l’onda sanguinaria del regime talebano, inducendo una diffusa disillusione. Impedire canti, balli, festeggiamenti, finanche il volo degli aquiloni. Fino all’apice dell’ottusa follia: la distruzione dei Buddha di Bamyan, scavati nella roccia da circa due millenni, e disintegrati dai coranici con un’iconoclastìa non dissimile da quella mostrata più tardi dall’Isis a Palmira.
Con l’invasione Nato, coi governi fantoccio Karzai e Ghani che riciclavano i Signori della Guerra e promuovevano fanatismo – pur mascherato nella Loya Jirga [il Grande consiglio] da norme favorevoli alle donne – è proseguita la grande bugia d’una trasformazione della nazione afghana.
Chi ama quel Paese e il suo popolo – l’ex parlamentare Malalai Joya lo predica da almeno tre lustri – giura che non è così. Le truppe occidentali smobilitate, che contavano un decennio or sono centomila soldati, hanno donato ai talebani, pur orfani di Omar, l’etichetta di “patrioti resistenti”. Loro se la sono appuntata al petto, perché agli occhi di qualsiasi afghano non servile agli interessi occidentali, hanno colpito gente comune, facendo 250.000 vittime, quattro milioni di profughi, un’infinità di sfollati interni, decine di migliaia di migranti obbligati ogni anno.
Se un simulacro di presunta nazione s’è liquefatto dal giorno alla notte, tutto era atteso da mesi. D’altronde a Doha gli americani hanno messo nero su bianco, con tanto di firma autografa, che i nemici d’un ventennio dovevano governare l’Afghanistan. La caduta dell’ultimo esecutivo fantoccio di Kabul diventa la fine, pur angosciosa, d’un bluff durato troppo, in una geopolitica che non lesina tragici “giri di valzer”.
Ph © Sohaib Ghyasi
Enrico Campofreda
Giornalista e scrittore