di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore
Fra la generazione afghana, che in un ottobre lontano vent’anni ha visto innalzare bandiere a stelle e strisce in una Kabul rapidamente occupata, e l’attuale generazione, sotto i cui occhi quelle bandiere erano riposte nei bagagli da portar via veloci, è rimasta la devastazione. Resa ancor più cruda dall’avvento talebano diventato dirompente in una notte.
Con scene di panico fra i pochi riusciti a fuggire e i molti che avrebbero voluto farlo, tutti animati dalla medesima paura. Reale per chi sa di rischiare additato come “collaborazionista”, probabile per chi teme il peggio conoscendo le gesta del primo Emirato. In mezzo c’è un confine, visibilissimo, che divide chi può salire sull’aereo della salvezza e chi s’attacca al carrello sfracellandosi. Che poi conferma la realtà vissuta in questi anni: i poveri, i marginali risultano sempre i più numerosi, per loro porte e portelloni restano sbarrati. Costretti come sono ad affrontare destino e nuovi padroni a viso aperto se uomini, momentaneamente a celarsi se donne. Annusando l’aria che tirerà.
Nella conferenza stampa rapidamente approntata dallo staff talebano, che vuole stabilire cordiali relazioni pubbliche, le promesse sulla condizione femminile sono molte. Libertà di lavoro e studio secondo le regole della shari’a, afferma il portavoce dei talebani. Ma ci si potrà fidare? Bisognerà vederlo all’opera il governo in preparazione e se dentro – come sembra – ci sarà anche un tratto del recente passato, i guai potrebbero sommarsi.
UN DOPPIO FONDAMENTALISMO
Mentre scriviamo la delegazione talebana incontra due “pezzi da novanta” che hanno contribuito a fare a pezzi la nazione: Hamid Karzai e Abdullah Abdullah. I pontieri dell’Afghanistan presente – Emirato o meno – portano con sé l’Afghanistan dell’ex rinascita, quella Repubblica islamica che in vent’anni ha scimmiottato l’essenza occidentale non essendo altro che un “vuoto a perdere”, un concentrato d’immobilismo, corruzione, sopraffazione, morte. Cosicché il passato, incistato su criminali che paiono imperituri (perché la coppia si fa garante dei vari signori e boss che da quarant’anni prosciugano il Paese) patteggia la sopravvivenza col nuovo corso talebano.
E per rendere il modello maggiormente inclusivo, varie istituzioni saranno infarcite di figure femminili. Nell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, che da mesi discute coi talebani, ci sono deputate (Najiba Ayubi), esponenti del ministero dell’Educazione (Farida Mohmand) e dell’attivismo (Safia Sediqqi), occorrerà vedere se non saranno ridotte a maschere del pashtunwali [il codice consuetudinario ed etico non scritto del popolo pashtun]. Insomma è prevedibile un raddoppio, col fondamentalismo talebano alleato al fondamentalismo dei Sayyaf, Hekmatyar e soci, cui negli anni dell’occupazione occidentale, definita democratizzazione, hanno prestato il fianco presidenti, vice e, spiace dirlo, anche talune deputate.
Chi non presenzierà è l’ultimo Capo, Ashraf Ghani. Dileguatosi negli Emirati Arabi Uniti [secondo quanto riferito da Reuters], si vocifera con un seguito di duecento fedelissimi, casse di documenti e soprattutto di denaro. Un’uscita concordata coi taliban e preceduta da una dichiarazione che sembra quasi un sermone: «Se restassi si conterebbero i martiri e Kabul verrebbe distrutta».
Una sceneggiata in piena regola alla quale non credeva prima di tutto lui, sapendo che i militari del costosissimo esercito nazionale (85 i miliardi di dollari investiti) non avrebbero combattuto né per la presidenza, né per l’inesistente Stato. Infatti da mesi avevano smesso di controllare quelle province non ancora conquistate armi in pugno dai coranici. È questo vuoto d’interesse, di fiducia, di valori che coinvolge la gente afghana – giovani e vecchi, donne e uomini – la misura della sevizia profonda inflitta da chi doveva costruire una nazione e l’ha dissanguata. Dall’interno. Così, ritiratisi i “donatori di pace” in divisa, gli “esportatori di democrazia” in doppiopetto, a tramestare sulla terra bruciata afghana sono gli artefici di molteplici disgrazie ripetute per anni. Che assieme alla morte per bombardamento dell’US Air e alle esplosioni fondamentaliste, assieme alla miseria e alla disoccupazione incrementate dalle loro ruberie, hanno fatto esiliare milioni di afghani.
NUOVI ESODI E MIGRAZIONI FORZATE
Ora si prospettano ulteriori esodi, non solo per i timori citati, ma per la radicata disistima verso tutto e tutti. Per lo svilimento d’un senso di popolo, per provare a vivere un sogno che resta comunque soggettivo, oltreché precario sulla via dell’Occidente. In vent’anni di fuga in tanti hanno confermato di preferire l’incognita alla morte in casa. Ma sa di paradosso la stessa “incognita ovattata” vissuta dagli afghani di supporto alla presenza occidentale: impiegati, traduttori, persone che i taliban additano come “collaboratori”. Già prima delle tragiche scene viste all’aeroporto Karzai (sic) erano note storie d’una loro accettazione in extremis sui voli di ritorno. Di collocazioni poco consone a decoro e aspettative di chi aveva fatto tanto per la causa, più che afghana (perché nessuna missione Nato lo prevedeva), per i bisogni degli inviati di Washington, Berlino, Londra, Roma. Dietro quei gradi militari, dietro quegli impegni diplomatici c’erano assistenza e dedizione locali, eppure la politica occidentale stenta a ricambiare. Gli esperti di migrazioni forzate da guerre prevedono copiosi flussi riversarsi a ovest a causa dell’avvento talebano.
Li teme anche la Turchia che contro possibili nuovi arrivi di profughi, per facilitare i respingimenti, sta erigendo sul confine di Van una sessantina di chilometri di muro che, all’occorrenza, possono raddoppiare e triplicare. I quattro milioni di rifugiati in Anatolia creano non pochi problemi agli equilibri di convivenza interna e, nonostante l’affarismo attuato dall’Unione europea in materia d’accoglienza, per ora la linea erdoğaniana non propende ad ampliare i campi. Ma tutto può precipitare, specie sul terreno della sicurezza, se la pacificazione che i turbanti promettono troverà ostacoli interni fra i notabili affaristico-politici o ideologico-religiosi. Quest’ultimo fronte è il più ostico. Davanti all’iper fanatismo dell’Isis del Khorasan il governo talebano diventa, sembra assurdo affermarlo, un male anche minore. Poiché i miliziani dissidenti – che sotto quella sigla hanno dato la stura “all’Olimpiade delle stragi”, lanciata su neonati, studentesse, hazara [un gruppo etnico afghano], gente nei bazar – vogliono dimostrare agli ortodossi la capacità distruttiva della propria organizzazione. Quest’ulteriore ingombrante presenza è la variante afghana del panorama di violenze prossime venture. Una variante innescata su destabilizzazioni storiche che soprattutto l’Intelligence pakistana ha manipolato e usato a piacimento, anche per risolvere diatribe interne al suo Paese.
L’INFLUENZA CINESE
Una variante che preoccupa la nuova padrona della globalizzazione economica, quella Cina che in terra afghana da oltre un decennio fa a!ari estrattivi con le “terre rare” indispensabili per l’alta tecnologia. E che le sue innumerevoli “vie della seta” rivolgono al settore energetico, spina nel fianco del gigante produttivo asiatico. La China National Petroleum Corporation vuol scandagliare il sottosuolo afghano in cerca di giacimenti che ha trovato nell’ostica regione dello Xinjiang, però teme che i locali uiguri stabiliscano relazioni jihadiste dentro e fuori dai confini, appunto coi talebani. Per questo la politica di Pechino o!re agli uomini di Baradar attenzioni e onori per scongiurare un asse fra quest’ultimi e i miliziani uiguri. Anche Xi Jinping, dunque, orienta la diplomazia verso un gradimento talebano: se esso garantirà sicurezza la Cina non dovrà compiere il passo d’una presenza militare, insidiosissimo in politica estera. Insomma i turbanti, che turbano i pensieri occidentali e di chi li ha visti all’opera, potrebbero diventare i referenti d’una stabilizzazione che piace ai grandi del mondo. Ma le donne potranno evitare lapidazioni, istruirsi, mostrarsi in pubblico, danzare, ascoltar musica, ridere? E gli aquiloni potranno volare?
Ph © Sohaib Ghyasi
Enrico Campofreda
Giornalista e scrittore