di Luca Attanasio. Giornalista e scrittore.
Strade deserte, pochi negozi aperti e lunghe file, in quei pochi, per fare le scorte. Il day after si apre al mondo mostrando una calma apparente ma nuvole nere si addensano sopra la Primavera Sudanese, una delle più coraggiose e compiute del mondo arabo, che, tra la meraviglia della comunità internazionale, aveva portato pacificamente alla destituzione di uno dei peggiori dittatori della Storia, il sanguinario Omar al-Bashir.
Due anni e mezzo fa, al culmine di una stagione di marce e dimostrazioni di massa innescata dalla società civile, in gran parte trainata da donne e giovani, il Sudan guadagnava il palcoscenico del mondo con la sua rivoluzione sostanzialmente incruenta che, cacciato il despota, portò all’inizio di un percorso di transizione verso una democrazia mai pienamente sperimentata nel Paese. Gli ufficiali, orfani di al-Bashir e riluttanti a lasciare il potere, non poterono opporsi alle spinte democratiche e dovettero cedere, dopo estenuanti trattative, a un governo che per la prima volta dall’indipendenza dal Regno Unito (1955) includeva membri della società civile. L’esecutivo, composto al 50% da militari e 50% da civili, fu affidato ad Abdalla Hamdok, ex vice segretario esecutivo della Commissione Economica dell’ONU per l’Africa, figura di rispettabile peso internazionale.
Oggi cala il triste sipario su quell’incredibile esperimento che metteva fine a un trentennio di dittatura violenta e faceva sperare in un modello africano esportabile.
Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre scorsi, i militari, dopo mesi di tensione per l’avvicinarsi del 17 novembre (data in cui l’esercito avrebbe dovuto definitivamente lasciare la presidenza ai civili pur mantenendo una quota di 50% di propri membri nel governo), hanno ripreso tutto il potere, arrestato Hamdok e vari ministri o governatori “civili” e chiuso, nel modo peggiore, l’epoca di transizione democratica. Ancora non è chiarissimo chi ci sia dietro la manovra autocratica. Sono militari fondamentalisti islamici? O prevarrà l’ala più laica? Per l’occasione sono stati riesumati i Janjaweed del Darfur, le famigerate milizie autrici di spaventosi eccidi e stragi di civili nella loro regione? Su una cosa, però tutti gli osservatori concordano: dietro il golpe e le manifestazioni pro-esercito degli ultimi mesi, che strumentalizzavano la disperazione del popolo stremato e affamato per la crisi economica e istituzionale e reclamavano «pane», c’è Omar al-Bashir. Sebbene in carcere e atteso all’Aja per rispondere di crimini contro l’umanità, genocidio, e crimini di guerra, può contare ancora su molti sostenitori nostalgici (e ben pagati). C’è chi scommette, peraltro, che alle viste ci sia un indulto che lo rimetterebbe in libertà.
È interessante notare, nel frattempo, che l’Umma Party [o Partito della Nazione] l’onnipresente partito guidato da Ṣādiq al-Mahdī, primo ministro dal 1966 al 1967 e dal 1986 al 1989, si è chiamato fuori dal golpe.
«La gente è scesa in strada fin dalle prime ore del mattino del 25 ottobre – spiega una fonte raggiunta con una certa difficoltà al telefono a Khartoum che chiede di restare anonima – e le manifestazioni di appoggio al governo di transizione e ad Hamdok, imponenti nei mesi precedenti al golpe, sono riprese. Ma la presenza militare è massiccia e già da ieri [25 ottobre] l’esercito ha cominciato a sparare. La società civile ha rischiato molto nel 2019 e, piuttosto che tornare indietro, è pronta a tutto. Hanno arrestato il premier e vari ministri o esponenti politici [il Ministro dell’industria Ibrahim al-Sheikh, dell’informazione Hamza Baloul, il consigliere per i rapporti con i media Faisal Mohammed Saleh, il portavoce per il consiglio sovrano Mohammed al-Fiky Suliman e il governatore della capitale Khartoum, Ayman Khalid], brava gente che ci metteva la faccia e credeva nel cambiamento. I militari continuano a fare pressioni su Hamdok perché accetti il rimpasto di governo e appoggi la nuova giunta. Ma lui sembra più determinato che mai a rimanere fedele alla rivoluzione».
«Continuate a protestare con ogni mezzo pacifico possibile – ha infatti dichiarato Abdalla Hamdok nella serata di lunedì 25 ottobre – e lottiamo per riprenderci la rivoluzione che ci è stata scippata da ladri».
Intanto, Abdel Fattah al-Burhan, capo del Consiglio militare di transizione e Presidente de facto del Sudan, l’ufficiale alla guida del golpe, ha dichiarato lo stato di emergenza in tutto il Paese e, «per garantire la sicurezza dei cittadini e salvare la rivoluzione» lo scioglimento dell’esecutivo e del Consiglio Sovrano di Transizione oltre alla decadenza di tutti i governatori e della commissione anti corruzione, in vista di elezioni da tenersi nel 2023.
Alla dichiarazione di Burhan, sono seguite proteste di massa e scontri durissimi con le forze armate, anche se fonti in loco riportano di elementi dell’esercito che fanno transitare pacificamente i manifestanti in alcune aree del Paese.
«Credo che dietro l’esercito – dice Mons. Yunan Tombe Trille, vescovo cattolico di El Obeid e presidente della Conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan – ci sia la fratellanza musulmana e lo testimonia anche il fatto che nei giorni scorsi, alcuni di loro, sono stati visti aggirarsi nel palazzo della Repubblica per chiedere che la componente civile cedesse tutte le quote del governo ai militari. È stato proclamato lo stato di emergenza, il consiglio supremo assieme al governo è stato dissolto e vari ministri sono in carcere. È un pessimo scenario che proseguirà con la giunta militare che prenderà in giro i leader internazionali con elezioni farsa e diranno di essere stati legittimati dal popolo esattamente come hanno fatto per decenni. La gente con molta probabilità continuerà a dimostrare ma il timore di tutti è che le manifestazioni, in uno stato di emergenza, saranno soffocate nel sangue. Stiamo tornando al governo dei militari e il futuro sembra aprire contesti di guerra piuttosto che di pace».
I cittadini sudanesi, resisi protagonisti di una rivoluziona storica, due anni e mezzo fa, hanno preso il futuro nelle loro mani. Oggi, quel futuro, gli è stato nuovamente strappato. Continueranno a lottare così come hanno fatto negli ultimi anni, ma hanno bisogno del sostegno convinto della comunità internazionale e degli organismi transazionali, perché l’ennesima primavera non si trasformi in un inverno.
Ph. Petr Adam Dohnálek / Wikimedia Commons
Luca Attanasio
Giornalista e scrittore