di Ilaria Valenzi. Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti.
Di nuovo il crocifisso scolastico e di nuovo una sentenza, a definirne i contorni di significato, limiti e relazione con i princìpi di laicità e non discriminazione. È toccato stavolta alle Sezioni Unite della Cassazione pronunciarsi su un tema ciclicamente divisivo, che supera le questioni giuridiche per connotarsi in senso politico. La vicenda è nota: un insegnante è solito rimuovere il simbolo dalla parete per poi rimetterlo al suo posto a fine lezione, ritenendo la sua presenza limitativa della libertà di insegnamento. Di lì in poi l’ordine di affissione da parte del dirigente scolastico e la sanzione disciplinare comminata al docente, che ricorre per discriminazione al giudice del lavoro. Prima particolarità: a reclamare contro il comportamento del docente è l’assemblea di classe, che si è espressa favorevolmente all’esposizione del crocifisso. Seconda particolarità: la Suprema Corte è chiamata a pronunciarsi sugli effetti del simbolo non sugli studenti (cfr. la controversia tra Soile Tuulikki Lautsi e lo Stato italiano relativamente alla richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane), bensì sull’insegnante dissenziente.
Le oltre 60 pagine di un’attesissima sentenza non si prestano certamente a una lettura superficiale. Tanto più nel caso di specie, in cui le Sezioni Unite scelgono con convinzione la via del componimento della controversia, facendo uso del principio di ragionevole accomodamento (la ricerca di misure per l’incontro tra posizioni conflittuali, preservando la tutela dei soggetti più deboli) e agendo con quella “prudenza mite” che caratterizza il mestiere del giudice, inserito nel confronto e nel dialogo in contraddittorio tra le parti.
In tale quadro colpisce l’immediata corsa all’accreditamento di una presunta vittoria da parte dei più alti esponenti della Conferenza episcopale italiana e il rilancio di una tale posizione ad opera delle principali testate giornalistiche. Una complessità appiattita in un’ottica di primato del diritto assoluto al crocifisso che, a ben vedere, poco ha a che fare con la pronuncia in parola e che assomiglia più a una “corsa stanca” contro l’inevitabile mutare delle sensibilità collettive, rischiando di strizzare l’occhio alle derive identitarie che i recenti nazionalismi hanno riportato in auge.
Provando a restituire una parte dei principali punti esaminati nella pronuncia, occorre partire dalla constatazione che l’affissione del crocifisso non deriva da un obbligo di legge, ma è frutto di un quadro normativo fragile di epoca precostituzionale, espressione di uno Stato autoritario e confessionista. Di tali norme è necessario dare una interpretazione costituzionalmente orientata, tale da garantire i princìpi di uguaglianza, libertà religiosa, laicità. Primo precipitato logico di tale interpretazione è che, leggendo la sentenza della Cassazione, «l’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato». Una rivoluzione in termini di politica del diritto, che rifiuta l’identificazione dello Stato con uno specifico credo e non consente l’occupazione dello spazio pubblico da parte di una sola fede, sebbene maggioritaria.
Di qui prende forma il modello che le Sezioni Unite intendono privilegiare: non un obbligo, quello dell’ostensione del crocifisso, bensì una facoltà, la cui opzione è rimessa alla decisione libera e partecipata della comunità scolastica. Quest’ultima diviene soggetto attivo della scelta dello spazio da dedicare alla propria anima plurale, eventualmente decidendo di esporre tanti simboli quanti corrispondano alla composizione etnica e religiosa del gruppo. Sebbene, pertanto, la parete scolastica nasca bianca, la stessa può diventare luogo del pluralismo.
Colpisce come la possibilità che lo spazio bianco venga preservato degradi a una delle opzioni a disposizione della classe e non sia più l’unico modello alternativo alla affissione del simbolo finora a disposizione. Una soluzione, dunque, che – nella sentenza – sembra riferirsi al modello italiano di laicità additiva, «aperta alle diverse identità che si affacciano in una società in cui hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse».
Nessuna discriminazione in capo al docente tuttavia è stata riconosciuta. Ciò sulla nota formula del crocifisso come simbolo passivo, già adoperata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in base alla quale la scuola non ha connotato in senso religioso la funzione dell’insegnamento pubblico, sebbene l’affissione possa risultare sgradita al docente. Il sistema educativo pubblico rimane obiettivo, pluralista, orientato al senso critico, afferma la Corte, nonostante il crocifisso, verrebbe da dire.
Sulla maturità delle comunità scolastiche di interpretare in senso innovativo la nuova facoltà accordata dovremo attendere e costruire.
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Ilaria Valenzi
Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti