di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Nel 1967 ci scandalizzò la decisione della commissione selezionatrice del festival di Cannes che rifiutò il film di Luis Buñuel Bella di giorno “per insufficienza artistica”.
Lo prese il festival di Venezia e vi vinse giustamente il il Leone d’oro. Vivevo allora a Parigi e venni al festival con gli amici della rivista Positif, molto legata a Buñuel per le origini surrealiste di molti dei suoi redattori.
Nello stesso anno e negli stessi giorni il festival aveva organizzato un grande convegno sull’espressionismo – cinema pittura teatro letteratura… – e l’invitato d’onore era Fritz Lang, uno dei personaggi centrali della cultura tedesca al tempo di Weimar, nonché uno degli inventori, possiamo dirlo con assoluta certezza, del cinema come arte, tuttavia di massa, grazie a capolavori come Metropolis, M, I nibelunghi, Il dottor Mabuse…
Ebbi l’onore, al seguito degli amici di Positif, di essere ricevuto nella sua stanza all’Excelsior (era a letto, non era in gran forma) e di fargli anch’io qualche secondaria domanda. Cercammo anche di farlo incontrare con Buñuel, che però rifiutò di vederlo anche se, in gioventù, la sua vocazione di regista era nata vedendo i suoi film. Me lo spiegai pensando che gli rimproverava di essere diventato “hollywoodiano” ma non doveva essere per questo, e forse era solo per ritrosia.
Buñuel e Lang sono sempre stati i miei due registi preferiti e sono orgoglioso di averli conosciuti entrambi. Di Buñuel, oltre l’immensa libertà dell’ispirazione, apprezzavo la profondità proprio filosofica della sua visione, di grande moralista capace di capire e narrare senza giudicare, come diceva che non si doveva fare un altro grande amore di sempre, Georges Simenon. Ecco, quel che univa questi tre grandi e con loro un altro dei miei prediletti scrittori, Graham Greene, e un altro grande regista, Alfred Hitchcock, era questa tensione a capire i comportamenti umani e a investigarne le pulsioni negative.
Studiando le loro biografie si imparava che quattro di loro erano cattolici e non si peritavano di dirlo, mentre il quinto, Buñuel, non aveva mai taciuto della sua formazione e ispirazione catto-spagnola anche se si dichiarava per amor di paradosso “sempre ateo, grazie a Dio”.
Cosa li univa, infine? Direi l’ossessione del tema della colpa, o, in altri termini, del peccato originale. Lang ne fece la base di tutti i suoi film (perfino degli western e avventurosi), anche dei più condizionati dalle produzioni, anche dei più “di genere di tutti” il più bello dei quali rimane, per me, Il grande caldo, un poliziesco, insieme allo stevensoniano Il covo dei contrabbandieri. C’è molta più profondità e direi perfino “teologia” in questi registi che in tanti sproloquianti soloni universitari di oggi, in tanti profeti da quattro soldi.
Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini