di Francesco Diasio, esperto di comunicazione e radiofonia nelle aree in conflitto
Francesco Diasio è un esperto di comunicazione e radiofonia nelle aree in conflitto che oggi vive in Belgio. In queste ore, mentre il processo per l’omicidio di Giulio Regeni viene avviato e subito dopo bloccato, ricorda una sua missione in Egitto pochi mesi dopo la morte di Giulio. Tra i suoi incontri in un Paese in cui la libertà di espressione era ed è fortemente limitata, c’è stato quello con un gruppo di sindacalisti che conoscevano il dottorando italiano e che con lui avrebbe voluto mettere in piedi un progetto radiofonico. Di seguito un ricordo di Diasio di quei giorni.
Pochi mesi dopo la brutale uccisione di Regeni vado al Cairo. Non è la prima volta. Abbiamo un progetto su media e democrazia e l’Egitto è uno dei Paesi partner. Abito a Zamalek, un’isola sul Nilo dove ho anche trovato un barbiere sotto l’hotel del quale approfitto. Vado sempre dal barbiere nei paesi arabi. Ti trattano bene, fanno il loro lavoro con meticolosità e poi alla fine rifiniscono il lavoro con uno spago che ti passano sulla nuca, tra collo e orecchie che toglie via tutti quei residui che da noi fanno col rasoio.
Il Cairo te la immagini negli anni di Nasser, quegli anni ’50 con poche macchine, quei quartieri bellissimi Art déco immersi nel verde come ancora si vede in pochi distretti come Garden City, dove abitano gli stranieri in immensi appartamenti dai soffitti alti e entrate maestose. A Garden City, vado a cena da un ex inviato al Cairo per la Rai. Il padre della moglie sta molto male, la cena non è allegra ma é tutta napoletana e nella conversazione a cinque intorno al tavolo parliamo di conoscenze comuni, come il vecchio inviato dell’Ansa a Varsavia che entrambi abbiamo conosciuto per ragioni diverse. Poi oggi, il Cairo è una immensa fila di macchine. Conto appena una decina di semafori in un tragitto che ci porta da una parte all’altra della città in due ore.
Attraverso quel traffico alle 9 di sera cercando di schivare le macchine che in quel tragitto corrono come quando hai appena finito di stare fermo e acceleri a cento all’ora per l’esasperazione. Nessuno si cura di una piccola ombra, poco illuminata, sul selciato. Incontro il mio amico Ahmed, che poi dopo pochi mesi hanno messo in prigione, anche se liberato dopo qualche giorno. Ahmed ha messo su una radio indipendente che seppur trasmettendo solo su Internet è diventata punto di riferimento nell’informazione libera nel regime di Al Sisi. Hanno la sede a pochi passi da piazza Al Tahrir. Quando li vado a trovare, le vie intorno alla piazza hanno i blocchi di cemento pronti ad essere posti al centro delle vie per impedire l’accesso alla piazza delle manifestazioni.
Attraverso con cautela e finalmente incontro il mio amico Ahmed. Attualmente è rifugiato in Estonia e poco tempo fa mi ha chiesto di aiutarlo a metter su un servizio radio in onde corte che dall’Europa possa raggiungere gli ascoltatori al Cairo e in Egitto.
Siamo in un piccolo bar, seduti su sedioline di plastica a bere tè. Ci sono altre persone e si discute animatamente in arabo. Non mi faccio problemi. Cerco di captare qualche parola per capire il senso della conversazione. Shabab (gioventù), mustakbal (futuro), hurrya (libertà)… il resto é contorno.
Zamalek non ha solo barbieri. Ci sono librerie dal tono occidentale, pub dal tono occidentale, hotel dal tono occidentale.
Il giorno dopo vado all’università dove c’è un’altra piccola radio indipendente che sempre diffonde su internet. Pensare a una radio libera in FM sarebbe non capire lo stato delle cose in Egitto. All’entrata dell’università mi chiedono di lasciare un documento per avere un piccolo pass che mi permette di circolare all’interno dell’ateneo. L’usciere controlla persino se ho il visto in ordine, e mi fa pesare che faccia parte di quell’immensa squadra di informatori di cui dispone la polizia nei regimi totalitari. Lascio il passaporto con qualche rammarico.
Fa un caldo mostruoso. Salgo le scale fino all’ultimo piano e in una stanzetta finalmente incontro i miei amici della radio, fatta di due piccoli locali adibiti a studio e redazione. L’aria condizionata mi conforta. Incontro le persone che devo sostenere, ma ancora non ho capito come. Ci eravamo già incontrati in passato, ma non presso la loro piccola struttura. I primi dieci minuti li passiamo ad abbracciarci e a chiedere come va.
Dopo un po’ passiamo alla stanzetta attigua, dove a sorpresa trovo un ambiente fumoso e pieno di ragazze e ragazzi che discutono di libertà d’espressione, di media liberi e strumenti tecnici per aggirare la censura. L’aria condizionata fa una fatica boia a tener botta in quella stanza zeppa di giovani fumatori. Dovevo essere l’ospite, anche se non lo sapevo, perché al mio arrivo sono accolto come l’“esperto” che di queste cose ne sa. Parlo loro di un vecchio sistema utilizzato dagli anarchici tedeschi che usano piccole chiavette USB con un micro trasmettitore incorporato che trasforma un segnale in streaming internet in frequenza FM anche se su una portata limitatissima, un palazzo, una via… Bisogna averne tanti e tutti in posti diversi per coprire a macchia di leopardo un quartiere, ma è efficace e difficile da scoprire. La discussione e gli occhi si accendono, la tecnologia oggi può’ essere d’aiuto anche se con molta cautela e con molto coraggio.
La sera successiva il mio amico della radio mi dice che ci sono altre persone che vogliono incontrarmi. Si tratta di sindacalisti che vorrebbero fare un giornale. Non mi tiro indietro e li incontro. Saranno state le nove di sera, ma sembrava notte fonda in quelle viuzze senza lampioni. Non é Garden City. Entriamo in un grande palazzo, saliamo ampi gradini e arriviamo in uno spazioso appartamento polveroso, scaffalli pieni di vecchie pubblicazioni alle pareti. Una grande stanza e una signora che fuma continuamente e mi chiede se voglio un caffè. Come rifiutare. Entrano poco alla volta altre persone e iniziamo a parlare del loro progetto che dovrebbe essere un giornale sindacale con magari anche un programma radio che accompagni la pubblicazione. Mi dicono che erano già in contatto con Giulio Regeni, che era una delle idee che avevano. «Eh, qui stava sempre seduto Giulio», «Ne avevamo parlato a lungo con Giulio…». Gli do la mia disponibilità ad aiutarli, ma chiarisco che la nostra organizzazione non ha soldi da mettere in questa iniziativa. Mi dicono che i soldi li troveranno loro.
È tardi ormai, e tra un caffé e una sigaretta quelle vie che sembravano buie, sono ormai nero pece. Il mio amico della radio mi accompagna verso piazza Tahrir dove posso prendere un taxi che, senza semafori, si avvia verso Zamalek. In quel piccolo tragitto a piedi, continuo a girarmi indietro e guardarmi le spalle per capire se qualcuno ci segue ma i miei occhi non vedono nulla. Peraltro, un qualsiasi ambulante potrebbe essere quel trattino di informazione per i servizi.
Il giorno dopo riparto, al mattino presto. La sera c’e’ una cena organizzata dalla scuola elementare di mia figlia. La sala da ginnastica piena di tavoli, genitori e i ragazzi biondi che ti servono la pasta scotta con un dubbio ragù. Tutti sorridenti, tutti felici con i professori che fanno l’accoglienza alla porta. Ho difficoltà a mettere in linea i pensieri. Vado a letto confuso.
Ph. © Jack Krier
Francesco Diasio
Esperto di comunicazione e radiofonia nelle aree in conflitto