di Vera Pozzi. Ricercatrice post-doc nell’ambito del Progetto Postsecular Conflicts del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Innsbruck.
Questi luoghi aspettano forse nuove parole o nuove figure […] perché molti non sono stati solo mutamenti del paesaggio, quanto cambiamenti del vivere”.
Luigi Ghirri, Per un’idea di paesaggio, 1986
Oseyev. The history of a ghost town, l’ultimo lavoro del fotografo moscovita Vladimir Seleznev (1984), incluso nella short list del concorso Self Publish Riga 2021, si concentra sulle nuove aree residenziali costruite al di là della Mkad, la circonvallazione esterna di Mosca. Il progetto inquadra un fenomeno che è anche, ma non esclusivamente, legato a un ambizioso piano promosso dal sindaco, Sergej Sobjanin nel 2012, per la costruzione di una Nuova Mosca nella zona periferica a Sud-Ovest della Capitale.
L’obiettivo, secondo le dichiarazioni ufficiali, era quello di offrire nuove abitazioni su un’area di 1.480 km², che si configurasse come un polo amministrativamente indipendente, dotato di servizi e nuove vie di comunicazione, capace di creare negli anni 1 milione di posti di lavoro e di attrarre 2 milioni di abitanti. A partire dal 2012, Vladimir Seleznev ha fotografato non solo Nuova Mosca, ma moltissimi altri spazi di espansione edilizia all’esterno della Mkad, documentando via via l’esistenza di innumerevoli aree solo parzialmente abitate, senza strade né mezzi di trasporto, e prive dei servizi promessi, finché si è imbattuto nel quartiere di Novoe Domodedovo, al tempo abbandonato a seguito della bancarotta dei costruttori, e così ha deciso di continuare il suo lavoro concentrandosi su molti altri complessi residenziali nelle medesime condizioni. Il progetto Oseyev – nome di una città immaginaria, che nella realtà rappresenta i diversi punti della periferia dove Seleznev ha lavorato per sette anni – è costruito secondo i caratteri della ricerca pseudo documentaria. Seleznev ne ha descritto il contenuto in un’intervista per il portale Photographer.ru:
«Tutti i materiali (foto, volantini, giornali, testi) non sono né in tutto e per tutto autentici, né completamente inventati. […] Ogni elemento del libro può essere “inteso” sia dalla prospettiva di un’utopia su una città abbandonata, sia come documento su una nuova Mosca». L’autore supera il linguaggio del fotodocumentario, così come quello della fotografia di paesaggio; nasconde il proprio nome nelle righe minute del colophon, e mette in primo piano una raccolta di materiali che, nel loro insieme, raccontano una storia. L’inizio descrive le promesse ricevute: quartieri nuovi, prezzi alla portata di chi non ha mai potuto comprare una casa, progressivo sviluppo di servizi in loco – campi da gioco, parchi, asili, scuole, negozi, costruzione di una rete viaria ed estensione delle linee dei mezzi di trasporto. In una parola, la promessa di un futuro.
Tutti questi elementi stridono con l’apparato fotografico del libro, che nelle sue 127 pagine mostra una realtà fatta di enormi quartieri circondati da distese di fango o cumuli di terra a cui si mescolano detriti e scarti di materiali da costruzione, spazzatura mai ritirata, e di interni senza finiture e già pericolanti, oppure abbandonati e vandalizzati. L’epilogo del libro racconta di una Oseyev abbandonata dai suoi abitanti, sfiniti dal degrado, dalla mancanza di sicurezza e di condizioni di vita accettabili, ingannati dalle promesse di costruttori che poi finiscono sistematicamente in bancarotta.
Ksenia Golubovič, nella sua intervista, fa riferimento all’esperienza traumatica che il contatto con lo Stato, con la dimensione pubblica comporta nella Russia di oggi. Così sembra farle eco una delle voci degli abitanti di Oseyev: «Tutti gli acquirenti, incluse le donne incinte e i più anziani, hanno partecipato regolarmente alle udienze, hanno organizzato manifestazioni e picchetti individuali, hanno scritto lettere alle autorità […] – hanno fatto praticamente qualsiasi cosa potessero per attirare l’attenzione sul problema. Eppure avevamo la sensazione di non essere ascoltati». Oseyev dà voce all’esperienza di molti, non soltanto in Russia, e dimostra che il lavoro dell’arte e della cultura può essere più vicino alla realtà delle breaking news dei canali di informazione.
Vera Pozzi
Ricercatrice post-doc nell’ambito del Progetto Postsecular Conflicts del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Innsbruck