di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
Prima di essere messo agli arresti domiciliari, lo stesso primo ministro Abdalla Hamdok non ha esitato a definire “la crisi peggiore e più pericolosa” che il Sudan sta attraversando quella transizione che avrebbe dovuto condurre la nazione fuori dalle secche della dittatura trentennale di Omar al-Bashir.
Due anni vissuti pericolosamente quelli dell’esecutivo di transizione (composto da militari e civili) nato nel 2019 dopo mesi di proteste popolari e l’intervento dell’esercito che sancirono la fine del feroce regime islamista.
Il governo in carica fino al 24 ottobre doveva anche fronteggiare la diffusa crisi economica e i problemi legati all’approvvigionamento di materie prime e carburanti, causati dalle proteste di alcune comunità che vivono nella parte orientale del Paese che da settembre hanno bloccato i traffici commerciali nello snodo di Port Sudan.
Il 17 ottobre migliaia di persone hanno manifestato nel centro della capitale Khartoum per chiedere lo scioglimento del governo e la presa del potere da parte del generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano (uno dei due organismi in cui è articolato l’esecutivo), nonché la figura di maggior spicco della componente militare del governo. Una protesta sostenuta dalle ali militari di alcuni partiti e gruppi armati. I manifestanti hanno nei fatti raccolto l’invito di al-Burhan che nei giorni precedenti aveva indicato nello scioglimento del governo l’unica soluzione per uscire dall’impasse politico ed economico in cui è impantanato il Sudan.
Quattro giorni dopo (il 21 ottobre) a scendere in piazza sono stati invece i sostenitori di quella parte del governo a guida civile che hanno protestato contro gli islamisti e l’esercito, ovvero i due pilastri della dittatura di al-Bashir che hanno continuato a rivestire un importante ruolo nel governo di transizione. In sintesi, società civile versus militari al vertice dell’amministrazione statale.
Un puzzle complesso e variegato (come del resto è la storia, la composizione sociale ed etnica del Paese) che rischia ancora una volta di bloccare il Sudan nelle sabbie mobili del conflitto civile.
Ne è la prova che a sollecitare lo scioglimento del governo per favorire l’intervento militare è una fazione scissionista delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc), un’alleanza civile che ha guidato le contestazioni ad al- Bashir e che è diventata un elemento chiave del nuovo esecutivo.
L’esecutivo di transizione in questi ultimi mesi ha visto diminuire il sostegno popolare di fronte alle dure misure economiche varate, tra cui il taglio dei sussidi per il carburante e la fluttuazione della sterlina sudanese. L’inflazione è schizzata alle stelle, raggiungendo il 422% a luglio, diminuendo di poco ad agosto e settembre. Povertà diffusa, carenza di medicinali e interruzioni dell’energia elettrica accompagnano la vita quotidiana dei sudanesi. Il Fondo monetario internazionale ha approvato un prestito di 2,5 miliardi di dollari e promosso un accordo per la cancellazione del debito estero, secondo cui il Paese vedrebbe ridotta la sua esposizione di circa 50 miliardi di dollari.
Ma proprio queste misure del Fmi sono state la benzina che ha alimentato le proteste contro il premier Hamdok, un ex economista delle Nazioni Unite. L’accettazione dell’accordo ha causato infatti un immediato aumento del costo di cibo e trasporti, inasprendo le condizioni di vita di una popolazione già pesantemente colpita dalle dissennate politiche economiche del regime di al-Bashir.
Le turbolenze sono arrivate puntuali già il 21 settembre quando il governo ha dichiarato di avere sventato un primo tentativo di colpo di stato, promosso dai nostalgici di al-Bashir. Civili e militari si accusano a vicenda rendendo difficile il cammino della transizione che avrebbe dovuto sfociare in libere elezioni. «Non sono neutrale o mediatore in questo conflitto. La mia posizione chiara e ferma è il completo allineamento alla transizione democratica civile» aveva affermato solennemente il premier Abdalla Hamdok.
Non sono bastate le sue buone intenzioni e la sua buona volontà a tirare fuori dal pantano il fragile abbozzo di governo democratico in costruzione. Quello che accadrà ora è un’incognita, ma molto dipenderà anche dalle scelte della comunità internazionale. Le dure condizioni imposte dal Fondo monetario internazionale (come è già successo in analoghe situazioni) non sono il viatico verso la libertà.
Ph. Abualbushr Ibrahim Hussein Mohamed / Wikimedia Commons
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana