di Samuele Pigoni. Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e flosofia.
A vent’anni anni dai fatti di Genova molte sono state le iniziative volte a ricordare le storie degli uomini e delle donne che subirono la violenza istituzionale. Tuttavia, forse troppo poco spazio è stato dato alle ragioni politiche che furono alla base del movimento no global.
L’anniversario dei vent’anni dalle giornate di Genova ha riportato all’attenzione le storie degli uomini e delle donne che allora subirono una violenza che nelle loro vite era stata senza precedenti. Abbiamo rivisto e rivissuto tutto; abbiamo pensato a Carlo Giuliani, ai suoi genitori, a tutto quello che la sua morte aveva significato tanto da renderla una morte simbolica, rappresentativa della violenza organizzata e finalizzata alla disarticolazione di un intero movimento politico e culturale. Troppo breve è stata tuttavia l’attenzione posta alle ragioni del discorso politico di allora e a quanto di quel discorso è ancora utile, oggi, a capire dove siamo.
Nel 2001 ho partecipato insieme a tanti altri e altre della mia generazione alle mobilitazioni di Genova contro il G8. Genova ci univa in un percorso che attraverso Seattle, Praga, Goteborg, San Cristobal De Las Casas, Napoli e Porto Alegre ci permetteva di riconoscerci come soggetto politico con uno spazio proprio nella Storia.
Eravamo figli e figlie delle varie anime della sinistra storica ed extraparlamentare, dei movimenti nonviolenti e pacifisti e dell’impegno delle Chiese nel mondo. Sotto la bandiera no global denunciavamo i rischi di una globalizzazione lasciata al solo protagonismo delle grandi imprese transnazionali e delle istituzioni economiche: si avvertiva che un mondo dai confini ridisegnati da accordi di libero mercato avrebbe portato alla crisi di legittimazione politica degli Stati, indebolito il sistema dei diritti e delle protezioni sociali e infine lasciato i cittadini esposti alle accelerazioni, ai rischi e alle incertezze del nuovo ordine mondiale.
Se viene meno lo stato sociale – dicevamo – viene meno il senso di appartenenza a una collettività e il ruolo visibile, consapevole e rappresentativo dei ceti medi; la base sociale delle democrazie moderne si sfalda e si genera un pericoloso cortocircuito che mentre da un lato tende a delegare le decisioni sempre più nelle mani di pochi, dall’altro rivendica appartenenze identitarie ristrette, ostili alle diversità e incapaci di comprendere le complessità delle democrazie contemporanee.
C’era internet – anche se non era da tantissimo che lo usavamo – e questo ci aveva permesso di sentirci vicini, di tenerci facilmente in contatto da luoghi diversi del mondo, di condividere saperi e conoscenze: potevamo informarci e scaricare fiumi di documenti, di articoli, di atti di convegni per discuterli e farne discorso grazie al confronto serrato con la comunità scientifica (da Noam Chomsky ad Amartya Sen, da Martha Nussbaum a Naomi Klein). Studiavamo e tentavamo l’innovazione dei linguaggi della sinistra storica sperimentando innesti tra le eredità teoriche del passato e le crescenti complessità del presente. E del futuro.
Quel futuro che forse è iniziato proprio con i fatti di Genova e che ha scritto nella Storia la fine di un certo modo di fare politica: quello che avevamo previsto è proprio la genesi in alcuni casi e la maturazione in altri delle radici economiche e sociali dei fenomeni antipolitici e populisti che avrebbero progressivamente sostituito le pratiche del conflitto democratico.
L’ambivalenza dei processi di globalizzazione, l’indebolimento dello stato sociale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la crisi dei partiti e della loro capacità di rappresentare i ceti medi, la promessa digitale – sconfessata dai processi reali di impoverimento – di un mondo a portata di mano, il disinvestimento dai processi di innovazione degli apprendimenti nelle scuole e nelle università avrebbero portato alla crisi della partecipazione e al dilagare di un senso di spaesamento, sfiducia e rancore nei confronti della classe politica e delle istituzioni democratiche.
Oggi ciò che rimane degli elementi di una critica della globalizzazione è sequestrato dalla presunzione di un’informe soggettività del rancore. Gli umori dell’antipolitica, usati elettoralmente dalle destre sociali e maneggiati alla bene e meglio da pseudo-intellettuali da tastiera e privilegiati bianchi fin troppo a loro agio nel dichiarare la fine delle democrazie moderne, ci avvisano una volta per tutte che forse è arrivato il momento di ripensare Genova, guardando a quei movimenti come a un nuovo punto di partenza. Ripartire da Genova significa oggi mettere al centro dell’agenda la sopravvivenza delle democrazie come spazio capace di immaginare un’altra globalizzazione, la società complessa e cosmopolitica di domani e l’argine necessario al dilagare dei destrissimi teatrini della rivolta politica alla Fight Club o V per vendetta.
Samuele Pigoni
Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e flosofia.