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Cosa ci insegna la Germania divisa

di Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni. Giornalista e scrittore

Lo scorso 26 settembre si è votato in Germania. Nessun dramma, com’è nella tradizione di quel Paese; fatto sta che, ancora una volta, l’incertezza regna sovrana e per formare un governo occorreranno parecchie settimane. Fosse accaduto da noi, apriti cielo: si sarebbe gridato all’immobilismo, al Parlamento bloccato, si sarebbero subito invocate riforme costituzionali in senso turbo-presidenzialista, qualcuno avrebbe strillato che “la sera del voto bisogna sapere chi ha vinto” e si sarebbe andati avanti così per giorni, in un crescendo di amenità che avrebbe finito con l’avvelenare ulteriormente il nostro clima politico. Per fortuna, in Germania è tutto più razionale: il sistema è sostanzialmente proporzionale e le maggioranze si formano in Parlamento dopo lunghe e complicate trattative fra i partiti.

La democrazia, tuttavia, se la passa male anche a quelle latitudini: la crisi investe l’intero Occidente e il benessere sociale e la serietà della classe dirigente di cui ancora possono beneficiare in alcune aree del Nord Europa non le pone più al riparo da amare sorprese. Tornando ai tedeschi, non sono al riparo, ad esempio, dall’avanzata di partiti pericolosi come Alternative für Deutschland, con le sue venature estremiste e a tratti neo-naziste, oltre che improntate al massimo del rigore, dell’austerità e dell’isolazionismo economico e politico. Non sono al riparo dalla rabbia dell’Est, riunificato all’Ovest da Kohl ma ancora ben distinto per quanto concerne salari e prospettive. Non sono al riparo dalla crisi di un’SPD che, per quanto in ripresa e forse in grado, per la prima volta dal 2005, di nominare un cancelliere, per la precisione Olaf Scholz, fatica ancora a radicarsi nella società e a ritrovare la propria ragione di esistere. Non sono al riparo dal risultato deludente dei Verdi, partiti con il vento in poppa e giunti sotto il 15 per cento nonostante la questione ambientale abbia ormai assunto un’importanza assoluta nel dibattito pubblico mondiale.

E non sono al riparo nemmeno dalla crisi, forse irreversibile, della Linke, che in Italia chiameremmo “sinistra radicale”, nata da una scissione a sinistra ai tempi del liberismo di Schröder e della sua Agenda 2010 ma oggi in crisi di credibilità prim’ancora che di consensi. Poi c’è la CDU, il partito della Merkel, egemone negli ultimi tre lustri ma incapace di rinnovarsi, avendo trovato prima una figura scialba come Annegret Kramp-Karrenbauer e poi lo sbiadito Armin Laschet, salvato dal disastro solo dalla retrograda componente bavarese della CSU. Infine, i liberali dell’FDP, l’ala più liberista e dannosa per gli equilibri europei, considerando che uno dei loro propositi abituali è quello di imporre la loro disumana visione del mondo al resto del Vecchio Continente, come già avvenne negli anni in cui la Grecia venne lasciata affondare e si temette seriamente per le sorti dell’euro.

Insomma, il quadro politico tedesco è frammentato, privo di punti di riferimento, ora privo anche di una guida forte e autorevole, costretto ad affidarsi a una coalizione eterogenea e composta da più partiti che potrebbero avere una convivenza assai meno agevole di quanto non si pensi nel corso del prossimo quadriennio. Sarà, con ogni probabilità, il semaforo ad avere la meglio, ossia l’unione fra socialdemocratici, liberali e verdi, il che lascia presagire una Germania molto attenta alle tematiche ambientali ma, al tempo stesso, assai meno generosa di quanto non lo sia stata, per esempio, nei giorni in cui è stato varato il piano di aiuti europei per fronteggiare le conseguenze della pandemia.

Senza contare che il nostro debito pubblico, Draghi o non Draghi, è esorbitante e che l’auspicio del segretario del PD Enrico Letta di un’uscita a sinistra dalla crisi è molto significativo ma, al contempo, difficile da realizzare. È difficile perché ciò comporterebbe una ridefinizione degli equilibri economici globali, e Draghi non è propriamente la figura più adatta a incarnare il cambiamento di cui avvertiamo con urgenza il bisogno. Allo stesso modo, non può lasciarci indifferenti il fatto che a breve si voterà in Francia e che lì il quadro politico è, se possibile, ancora più frammentato che in Germania e forse persino peggiore del nostro. Manca, infatti, una sinistra socialista degna di questo nome, nonostante la positiva candidatura della Hidalgo, c’è un personaggio ambiguo come Macron e la destra è ormai egemonizzata dal lepenismo, con buona pace della sua componente popolare e moderata.  

Lo scacchiere su cui sarà chiamato a muoversi il prossimo Cancelliere tedesco si preannuncia, pertanto, assai difficile, specie se si considera che il disimpegno americano crea un vuoto difficilmente colmabile e che l’Europa, al momento, è poco più che un’espressione geografica.

Certo, sarebbe opportuno che Italia, Francia e Germania facessero fronte comune, che rilanciassero il progetto continentale, magari affidandosi alla realizzazione di quell’Europa a due velocità che sola può garantire un processo di effettiva integrazione e la risoluzione delle peggiori controversie, a cominciare dall’eterogeneità di una costruzione nata male e cresciuta peggio. Ma con quali interpreti? E, soprattutto, facendo dialogare quali partiti?

Negli anni del berlusconismo eravamo noi italiani a essere mal rappresentati, poi da noi l’eccezione è diventata la regola, adesso la crisi della democrazia si è estesa a macchia d’olio, al punto che sembra di assistere a una sorta di grande Italia, senza che determinati paesi, su tutti proprio la Germania, siano abituati ad affrontare una simile emergenza, ormai dai tratti permanenti.

Quando la società è divisa, frastagliata, in preda all’isteria, impoverita da una catastrofe che ha minato le basi stesse del nostro stare insieme, con una ripresa economica che non garantisce alcun lavoro di qualità, in particolare ai più giovani, quando si sommano queste componenti è naturale che la rabbia dilaghi e che si giunga a una perdita di senso del nostro stare insieme.

Per anni abbiamo considerato la Germania al sicuro, un porto tranquillo nella tempesta. Ora, forse, persino loro si rendono conto di non essere per niente al riparo, di avere una generazione precaria e sottopagata e di avere un odio dilagante al proprio interno, acuito dai rigurgiti del terrorismo jihadista, dal riemergere di soggetti neo-nazisti e dalla crisi climatica che quest’estate ha messo in ginocchio il paese. Non esistono più isole felici: è bene metterselo in testa e smetterla con un certo provincialismo cialtrone che racconta una storia lontana anni luce dalla realtà.

La Germania che ha votato a fine settembre si è rivelata un paese fragile e sull’orlo di una crisi di nervi, che sicuramente riuscirà a riprendersi e a formare una coalizione all’altezza ma non potrà più contare sull’aura di invincibilità che le garantiva la presenza al potere di una roccia ormai consolidata. Nella stagione del multipolarismo anche l’Europa si appresta a essere multipolare. Noi e i francesi abbiamo davanti un’occasione irripetibile per provare a cambiare il corso della storia.

Immagine  © Angelo Faiazza / CopyLeft

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Roberto Bertoni

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