di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma.
Al giorno d’oggi, con l’espressione “teologia politica” si tende a indicare una forma di teologia che si occupa di “fatti concreti”. Il dibattito ha impegnato teologi importanti, alcuni dei quali hanno sottolineato come l’Evangelo sia “concreto” e “politico” per natura propria, senza bisogno di “riverniciature”.
Il teologo tedesco Eberhard Jüngel, scomparso un mese fa, si esprimeva solitamente con un certo distacco sulle cosiddette “teologie politiche”; negli anni culminanti della sua attività, poi, l’espressione “teologia pubblica” non era ancora di moda: essa indica, oggi, una forma di teologia che, secondo i suoi fautori, dovrebbe mostrare la rilevanza del pensiero cristiano nelle questioni dette “concrete”, dal riscaldamento globale alla bioetica.
Non ho avuto occasione di parlarne con Jüngel, ma posso facilmente immaginare il suo sorrisetto un po’ sarcastico e una risposta falsamente evasiva, ma in realtà chiarissima, del tipo: «sono troppo vecchio per queste cose». Jüngel temeva che il discorso teologico potesse ridursi a parafrasi religiosa di quanto tutti e tutte dicono comunque, anche con ragione: che cioè la catastrofe climatica è imminente; che il capitalismo globale ha i suoi rischi e fa parecchie vittime; che il dialogo è preferibile al conflitto e la tolleranza è una buona cosa.
Ripetiamolo per chiarezza: nessuna persona ragionevole sosterrebbe il contrario.
Per perorare queste tesi, però, a parte l’esigenza di evitare le genericità, che nuocciono gravemente alla causa, non è necessario, secondo Jüngel, tirare in ballo la teologia. È vero che esistono importanti istanze religiose (e, recentemente, anche interreligiose) che spiegano tutto questo al mondo secolare con notevole prosopopea e vengono celebrate da una stampa cortigiana come “voci profetiche”, ma il nostro teologo non le avrebbe considerate un esempio da seguire. Ciò gli ha procurato una certa fama di pensatore “apolitico”. In realtà, la politica ha molto a che vedere con la sua vocazione, non solo teologica, ma cristiana. Egli racconta che il suo interesse per la fede cristiana è nato dall’ascolto di un versetto del Gesù giovanneo: «la verità vi farà liberi».
In un luogo come la Germania comunista, fondato sulla menzogna che genera asservimento, la parola evangelica gli è sembrata un grido rivoluzionario. Essa ha segnato la sua gioventù fino a condurlo all’espulsione dal liceo che frequentava, in quanto “nemico della repubblica”. Senza mai diventare un teologo politicamente schierato, Jüngel ha sempre mantenuto questa convinzione: l’Evangelo è “politico” (o, come oggi si direbbe: “pubblico”) di per sé. Non c’è bisogno di “applicarlo” per forza a questo o a quello, nel tentativo, tra l’imbarazzato e l’affannoso, di mostrare la sua “attualità”. L’essenziale è che almeno la Chiesa riconosca tale attualità; che almeno essa non sia posseduta dall’ansia malsana di “concretizzare” il messaggio di Cristo “qui e ora”, come se esso, per natura propria, fosse astratto e risuonasse altrove e in un altro tempo.
Curiosamente, questa spontanea “politicità” dell’Evangelo, spesso ignorata dalle cristiane e dai cristiani, è ben compresa dai poteri con pretese assolute, che reagiscono con la persecuzione. Ieri nella DDR, oggi in Cina e in innumerevoli altri Paesi.
Jüngel aveva appreso questa tesi, che cioè l’Evangelo è “concreto” e “politico” per natura propria, senza bisogno di riverniciature, oltre che dall’esperienza, da uno dei suoi grandi maestri, Karl Barth. Curiosamente, costui, a differenza di Jüngel, era politicamente molto di Sinistra, iscritto al partito socialdemocratico tedesco durante il nazionalsocialismo e in seguito, durante la Guerra fredda, sospettato da alcuni di connivenza con i regimi comunisti. Egli riteneva, però, che la concentrazione della Chiesa sul proprio compito di annuncio, sulla base della Bibbia, costituisse anche, magari non nell’immediato, ma sul lungo periodo, un contributo alla sottolineatura della pertinenza “pubblica” dell’Evangelo; e che, d’altra parte, l’impegno politico di donne e uomini membri delle Chiese fosse tanto più efficace (e anche “testimoniale”) proprio se depurato da riferimenti religiosi esposti al rischio di apparire, o risultare effettivamente, estrinseci e banalmente decorativi.
La società secolare non ha bisogno di Chiese “apolitiche”, ma nemmeno di comunità che si sforzano di “rendere interessante” il loro messaggio attraverso qualche additivo. L’Evangelo parla da solo e parla efficacemente. Basta raccontarlo.
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Fulvio Ferrario
Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma