di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore.
Definita “guerra ibrida” da Jens Stoltenberg, noto più per essere lo zelante Segretario Generale della Nato che un ex premier norvegese, la crisi dei migranti sul confine bielorusso-polacco mostra un grado di cinismo che supera il tecnicismo dell’enunciazione. Essa racchiude le svariate forme assunte dalle strategie di contrapposizione, militare e non, fra contendenti. Dunque tattiche, notizie e disinformazioni, variabili diplomatiche, d’intelligence, iniziative informatiche, pressioni economiche unite ad azioni di forza, palesi o celate. Andarono in scena sempre sul fronte orientale d’Europa, sette anni addietro durante la guerra strisciante fra Russia e Ucraina. Una pace armata tuttora aperta e di cui questa vicenda sembra un’appendice.
E nel periodo dell’invasione di fake news, hackeraggi, virus da computer e virus da pandemia, tutto ciò è decollato in sempre più tortuosi labirinti globali. Le potenze mondiali sono in prima linea, ma spesso s’accompagnano a comprimari e l’attuale duo Putin-Lukashenko è solo l’ultima accoppiata spiazzante. Fare della migrazione un’arma esplosiva non è cosa nuova. Raìs e autocrati d’altre epoche si sono esibiti nello sporco gioco sulla pelle di disperati, diventati tali per volontà degli stessi registi di questa triste condizione e per una prostituzione della geopolitica ai propri vizi. Vizi di potere, denaro, supremazia, sfruttamento, razzismo. Ci stanno dentro Oriente e Occidente, Stati enormi e piccini. L’inquietante Cina di Xi, l’America del finto dualismo repubblicano-democratico che alla maschera della democrazia unisce il ricatto dell’economia con gli apparati del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Anch’esse attuano quell’ibridismo belligerante nelle operazioni che stabiliscono “governi amici” in tanti angoli del mondo. Sui confini orientali d’Europa, congelati per decenni da Guerra fredda e contrapposizione fra blocchi, le ostilità sono riprese quando il potere putiniano, dopo un decennio di orgoglio nazionalista, ha rilanciato il mito della potenza. E i perduti satelliti degli ex Stati sovietici, rimpianti anche nel meridione asiatico, bruciano maggiormente ai confini di un’Europa ingranditasi con quei Paesi un tempo amici di Mosca, ora ricolmi di basi Nato e attentatori di spazi vitali, com’è la Polonia di Morawiecki. Certo, il gruppo di Visegrád è più una spina nel fianco del Parlamento di Bruxelles che del Cremlino. Però quest’ultimo nella propria volontà di grandezza, pretende il rispetto che fu del suo impero Ottocentesco e difende con ogni mezzo uno spazio vitale, che in geopolitica è fatto anche di geometrie geografiche.
Ecco perché la Bielorussia, pressata dalla Polonia fedelissima della Nato, è un capitolo correlato alla questione Ucraina, non solo ex Stati sovietici, ma spianate che se non sono amiche provocano a Mosca una sorta di claustrofobia. Il cortigiano Lukashenko serve a Putin per conservare la giusta distanza con quell’Occidente, utile per gli affari energetici, ma insidioso per le presunzioni del politicamente corretto in fatto di pluralismo democratico, diritti umani e civili. Certo, messa così la cosa fa sorridere perché l’Ovest antirusso tiene in seno, finanzia e arma più di uno Stato che se non è dittatoriale come quello del leader di Minsk assume posizioni canagliesche verso la sua gente, i dissidenti, le donne, le componenti Lgbt.
In mezzo a queste vicende sono finiti loro, i Karim di una tratta, avviata sul velluto delle lusinghe di visti turistici, passaggi su Belavia, l’aerolinea bielorussa, ma anche su Turkish Air e luccicanti compagnìe, di bandiera e low cost, di alcune petromonarchie, Emirati Arabi Uniti in testa, in rivalsa sull’attivismo qatarino per incontri, summit, convegni, fiere, vacanze, e “spedizioni” umane.
Uomini, donne, bambini finiti prigionieri di due eserciti – bielorusso e polacco – schierati davanti a un filo spinato che è il confine di terra esistente fra sistemi che si fronteggiano, come i loro soldatini. Sono famiglie diseredate, siriane, kurde, irachene, non sempre povere perché hanno pagato in salatissimi euro quel viaggio della speranza, rivelatosi un bidone e finito nella trappola della foresta alle spalle di Kuznica. Luogo e clima non accoglienti per i loro standard metereologici raramente rivolti sottozero. Cercano un passaggio a ovest, non in Polonia che nella xenofobìa di Stato non li vuole. Cercano la Germania, sovraccarica già di oltre 10 milioni di migranti. Anche il Paese più accogliente dell’Unione comincia ad avere problemi di collocazione, non dei quattromila di quest’anomala ondata, ma di quelli che continueranno a indicarlo come il “paradiso europeo” dove rifugiarsi. Da qui la preoccupazione della Cancelliera in uscita, che avvia un dialogo con Putin più di facciata che di sostanza: lei sa che il presidente russo farà finta di ascoltare, lui sa che la donna che ha retto e piegato l’Unione ai voleri di Berlino lascia un vuoto denso d’incertezze. Visto che il sovranismo non è solo il fantasma che s’aggira per il vecchio continente, ma può condizionare i sedicenti pilastri di democrazia (Francia e Italia) che puntellano, non senza invidie e affanni, lo strapotere tedesco.

Se l’essenza del paradiso europeo, che attira la migrazione afro-asiatica grazie a possibilità di lavoro e assistenza umanitaria, inizia a incrinarsi, diventando in alcuni casi un inferno ben oltre le emergenze Covid che hanno limitato i flussi del bisogno e della disperazione, resta la contraddizione tutta politica del Moloch dell’Unione. La grande incompiuta d’un sistema ormai uscito dall’infanzia e dall’adolescenza, un bel progetto che mostra di non voler crescere, restando esso stesso “cosa ibrida”. Visto che il gruppo aereo-trasportato di persone, prigioniere di eserciti e capi di Stato prima che del freddo e delle foreste del Nord, sono cuori e cervelli richiedenti un’esistenza, ma restano inascoltati. Per loro non c’è spazio nelle patrie distrutte o mai create, e neppure altrove. La loro vita è bloccata da anni da quelle politiche mondiali che hanno ridotto, e continuano a ridurre, aree del mondo in discariche di violenza e oppressione. Esempi: l’Iraq, soffocato dal despota Saddam e liberato a suon di bombe dagli anglo-americani della Nato, che dopo le proprie distruzioni hanno aperto la via a quelle dello Stato Islamico. Quest’ultimo combattuto dalla comunità kurda, ripagata col nulla e la fuga dei suoi figli.
La Siria, 18 milioni di abitanti, che dopo mezzo milione di morti d’una guerra civile ed esterna durata otto anni, vede 7 milioni di sfollati interni e 5.5 milioni riparati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq. È l’unico Paese dove il satrapo della sua gente è ancora dov’era. Protetto dalla sanguinaria cerchia degli Shu’bat, dal clan familiare, da padrini mondiali e regionali. Il primo, Putin, rimasto fedele alla linea della difesa a oltranza di chi gli consente di piazzare aerei e navi da guerra tra Latakia e Tartus. Il secondo, il turco Erdoǧan, un protettore acquisito per reciproca convenienza di Ankara e Damasco, volta a spazzar via l’ingombro militar-autonomista del Rojava. Scenari che l’Unione Europea ha avallato, prestando i suoi militari a quei piani su cui il “citatore” Stoltenberg non mette bocca, perché tutto viene deciso a Washington, tra Pentagono e Casa Bianca. Il cerchio si chiude attorno alle follìe d’una geopolitica globale che suscita disastri e li risolve con conflitti e muri da erigere davanti a conclamate sciagure. La Polonia si sta già muovendo. Entro giugno è prevista una recinzione di 5.5 metri d’altezza e 180 km di lunghezza. Un catenaccio come quello che chiede la Lituania, finanziato dall’Ue, su cui la Von der Leyen tentenna, mentre Michel palesa un assenso.
Ph. © Sandor Csudai

Enrico Campofreda
Giornalista e scrittore