di Andrea Mulas. Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso
La storia non si arresta né con la repressione, né con il crimine. Questa è una tappa che sarà superata […]. È un momento duro e difficile. Ma il futuro sarà del popolo, sarà dei lavoratori. Viva il Cile, Viva il popolo, viva i lavoratori. Queste sono le mie ultime parole ed io ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, io ho la certezza che sarà almeno una lezione morale che condannerà la slealtà, la viltà, il tradimento. 11 settembre 1973, Santiago del Cile.
Siamo nel palazzo presidenziale de La Moneda circondato e attaccato dalle forze armate cilene comandate da Augusto Pinochet e le ultime parole del presidente della repubblica Salvador Allende rappresentano il testamento politico-morale che lascia il segno nella storia del Paese.
Dopo diciassette anni di feroce dittatura, intrisa di terrore, desapareciones e omicidi, e il ritorno ad un regime democratico fondato su un delicato equilibrio tra le forze del centrosinistra (la Concertación de Partidos por la Democracia) e gli apparati filo-pinochettisti, domenica 19 dicembre si può considerare finalmente terminata la “lunga transizione” cilena verso la piena democrazia.
Gabriel Boric, 35 anni, deputato del Partido Convergencia, candidato delle forze di centrosinistra raccolte nella coalizione Apruebo Dignidad, contro ogni pronostico ha vinto con il 56% delle preferenze e più 4,6 milioni i voti. È il presidente della repubblica più giovane e più votato della storia del Cile.
Nato nella città australe di Punta Arenas, a tremila chilometri a sud di Santiago, nel 2010 viene eletto presidente del Centro degli studenti di diritto dell’Universidad de Chile e in poco tempo diventa uno dei rappresentanti delle mobilitazioni studentesche che rivendicano una scuola pubblica, gratuita e di buona qualità. Il movimento affonda le sue radici nelle proteste liceali del 2006 contro il governo guidato dalla socialista Michelle Bachelet, la cosiddetta “Revolución pingüina”, definizione che deriva dai colori dell’uniforme scolastica dei manifestanti.
Boric, leader di quella che è stata definita la “nueva izquierda”, con dodici punti percentuali di distacco, ha sconfitto José Antonio Kast, rappresentante dell’ultradestra, nonché dichiarato nostalgico dell’era pinochettista, che puntava a rafforzare la linea conservatrice, con punte reazionarie, espressa negli anni del mandato di Sebastian Piñeira, come nel caso delle manifestazioni di protesta popolare esplose il 18 ottobre 2019.
Il cosiddetto “estallido social” ha infatti messo a nudo la lacerazione del tessuto sociale del Paese andino, la debolezza del suo apparato statale e le contraddizioni del suo modello di sviluppo. Lo dimostra il fatto che non si è trattato di un evento sporadico ad opera di estremisti, poiché si sono susseguite numerose manifestazioni pacifiche lungo tutto il Paese con un sostegno da parte del 65% dei cileni. Una settimana dopo per le strade della capitale manifestavano più di un milione di persone.
Il governo Piñeira, in quell’occasione, non ha aperto una linea di dialogo, ma ha scelto di decretare lo stato d’emergenza nelle province di Santiago e Chacabuco: «L’obiettivo è molto semplice ma molto profondo: assicurare l’ordine pubblico. Assicurare la tranquillità degli abitanti della città di Santiago, proteggere i beni sia pubblici che privati, e soprattutto garantire i diritti di ogni nostro compatriota che sono stati seriamente messi in pericolo dall’azione di veri delinquenti che non rispettano niente e nessuno».
La misura di fatto limitava i diritti di riunione e movimento e consentiva ai militari di svolgere funzioni di polizia, con risultati propri di un regime militare e non certo di uno Stato di diritto. Secondo la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) dal 18 ottobre al 31 gennaio 2019 ci sono state 29 vittime, 13.046 feriti durante le proteste e circa 23.000 arresti che hanno subito diversi abusi. Oltre a decine di aggressioni subite da giornalisti e fotoreporter da parte delle forze di sicurezza.
Di contro, tutta la campagna elettorale di Boric è stata all’insegna della promozione dei temi della sicurezza sanitaria, della migrazione e della giustizia sociale, facendosi affiancare come portavoce dalla trentacinquenne Izkia Siches, presidente del Colégio Médico de Chile, tra le figure più carismatiche e amate durante la pandemia.
Voglio iniziare questo momento storico, tremendamente emozionante, in cui ci osservano gli occhi del Cile e del mondo, ringraziando tutti i milioni di cileni che sono andati a votare per onorare la democrazia. Basta con il dispotismo illuminato, di chi crede che si possa fare un governo per il popolo ma senza il popolo. La gente entra a La Moneda con noi. 19 dicembre 2021, Plaza Dignidad, Santiago del Cile.
Nel primo discorso pronunciato davanti a migliaia di cileni che hanno invaso le strade della capitale per celebrare la vittoria intonando “el pueblo unido jamás será vencido”, Boric ha indicato la nuova linea del suo governo che raccoglie e sintetizza le istanze politiche dei partiti di sinistra e del centrosinistra, come ad esempio «l’urgenza di recuperare posti di lavoro di qualità, in particolare nel caso delle donne, sostenendo con decisione le piccole e medie imprese, oltre a promuovere la crescita e avanzare in un processo di ripresa economica sostenibile e con adattamento alla crisi climatica». Ma aspetto ancora più rilevante è la sintonia con il sentimento maggioritario dei cileni, che tra le proteste dell’estallido e la pandemia hanno chiesto maggiori diritti sociali, più presenza dello Stato e il superamento delle disuguaglianze, nonostante gli indici di crescita economica registrati negli ultimi anni.
Il successo inaspettato, ma politicamente pianificato da Boric, rompe lo schematismo tradizionale dei due grandi blocchi (centrodestra e centrosinistra) della politica cilena, sia per la formazione culturale del neopresidente, sia perché è il simbolo della generazione che è cresciuta “senza paura” (“sin medio”) e che ha contestato i governi di centrosinistra che tra il 1990 e il 2010 hanno guidato l’incipiente transizione democratica. Non c’è dubbio che il trionfo di Boric, rappresentante della sinistra più progressista, apre le porte de La Moneda ad una generazione giovanissima, formata nelle rivendicazioni sociali delle rivolte del 2011 e del 2019 e da nuovo vigore alle prospettive di rilancio delle sinistre latinoamericane della regione, come l’Argentina e il Brasile, che il prossimo anno affronterà le delicate elezioni presidenziali.
Le sfide per il nuovo Cile
Da adesso il neopresidente ha il difficile compito affidatogli da milioni di cileni, ovvero dare risposte adeguate alle rivendicazioni e alle speranze di quelle fasce della popolazione che per lunghi anni hanno subito le conseguenze di ripetute politiche ultraliberiste che hanno polarizzato lo scontro sociale e strutturato una società fortemente diseguale. Si pensi che l’istruzione, tanto secondaria come universitaria, oggi rimane tra le più costose dell’America Latina, agendo come un potente catalizzatore delle disuguaglianze esistenti invece di promuovere mobilità sociale. Infatti solo l’11% degli studenti provenienti dai settori più poveri della popolazione riesce ad ottenere un titolo universitario, contro l’84% degli studenti più abbienti.
E ancora. Dall’ultimo Rapporto redatto dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) nel 2020 è emerso che tra i paesi con il più alto tasso di sviluppo il Cile presenta la più alta disparità di reddito, dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza e il 50% più povero solo il 2%. Ciò è il frutto di un regime fiscale regressivo, in base al quale tutti pagano poche tasse, senza alcuna distinzione tra l’1% e il resto, e lo Stato abiura al suo ruolo “equilibratore” di garante del patto sociale.
L’altra sfida che attende Boric è la nuova carta costituzionale. È infatti in corso nel Paese il processo costituente che terminerà in primavera con la presentazione della nuova Costituzione che supera e abroga quella pinochettista del 1980 che – paradossalmente – ancora disciplina il sistema politico-istituzionale cileno. Si pensi che l’11 marzo 1990, giorno dell’insediamento ufficiale di Patricio Aylwin, primo presidente della Repubblica eletto democraticamente, il generale Pinochet sedeva accanto al neoeletto presidente, ed è lo stesso Pinochet a consegnare ad Aylwin le insegne del potere repubblicano.
Finalmente la Convención constitucional, che ha il compito di redigere la nuova carta costituzionale, ha chiarito quali saranno i suoi principi fondanti: il primato dei diritti umani, la proibizione delle discriminazioni, l’uguaglianza di genere, l’interculturalità, il plurilinguismo, la partecipazione dei popoli indigeni. L’era pinochettista ha i giorni contati.
Andrea Mulas
Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso