di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana
Con una guerra in corso che assume sempre di più le caratteristiche di una “pulizia etnica”, sembrano lontani anni luce i tempi in cui l’Etiopia forniva all’opinione pubblica internazionale un’immagine di sé rassicurante. Come anche le motivazioni che portarono, nel 2019, al conferimento del premio Nobel per la Pace al premier Abiy Ahmed.
Sembrano lontani anni luce i tempi in cui l’Etiopia forniva all’opinione pubblica internazionale un’immagine di sé rassicurante, di assoluta stabilità politica rispetto agli altri Paesi vicini (Somalia, Eritrea, Sudan e Sud Sudan) tanto da diventare l’interlocutore privilegiato per la ricerca di un difficile equilibrio in un’area squassata da conflitti. Sull’Etiopia confluirono ingenti investimenti stranieri che si tradussero tra l’altro nella costruzione di grandi opere che fecero gridare al miracolo: un miracolo che in tanti pensarono (o sognarono) di esportare nel continente africano.
Eppure parliamo di appena tre anni fa quando nell’aprile 2018 fu eletto primo ministro Abiy Ahmed Ali, di etnia oromo, giovanissimo politico (è nato nel 1976), brillante riformista (nella prima fase del suo governo), arrivato al potere dopo tre anni di dure proteste di piazza soffocate nel sangue dal presidente Hailé Mariàm Desalegn, di etnia tigrina. Mesi vissuti pericolosamente (per gli attentati a cui sfuggì) e di corsa che aprirono i cuori a cambiamenti radicali: migliaia di prigionieri politici liberati, denuncia del ricorso alla tortura da parte delle forze di sicurezza, licenziamento dei poliziotti che si erano macchiati di violazione dei diritti umani. Capacità di interfacciarsi autorevolmente con Turchia e i Paesi Arabi del Golfo, Stati Uniti ed Europa.
Una corsa verso la democrazia che culminò con la pacificazione con l’Eritrea, nazione con cui l’Etiopia era in guerra dal 1998. E sempre con eccessiva velocità al giovane premier etiope fu assegnato nel 2019 il premio Nobel per la Pace. E proprio come un boomerang quel premio gli si è rivolto contro: oggi l’appellativo più comune è infatti “Nobel guerrafondaio”. Se lo è guadagnato dopo aver ordinato nelnovembre 2020 l’offensiva militare contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf ), una “veloce e chirurgica operazione di polizia”, l’aveva definita Abiy Ahmed per non smentire il suo “stile Ferrari”.
Un estremo tentativo di domare i malumori del Tplf, estromesso dal governo centrale dopo 27 anni di costante esercizio del potere, troppo spesso esondato verso derive autoritarie e repressive. E le accuse all’esecutivo centrale di marginalizzare i tigrini sono state la benzina sul fuoco della contestazione. Quella “veloce operazione chirurgica” si è trasformata in un conflitto vecchio già di un anno e che fino ad ora non conosce la parola “fine”. Ha lastricato le strade etiopi di migliaia di morti, provocato la fuga di 60 mila persone nel confinante Sudan, causato lo sfollamento internodi 2 milioni e 700 mila abitanti nelle regioni di Tigray, Amhara e Afar.
Mentre su più di mezzo milione di cittadini aleggia lo spettro della morte per fame. È attualmente in corso una guerra brutale senza esclusione di colpi che assume di giorno in giorno carattere etnico o meglio di pulizia etnica. Nessuno degli schieramenti in campo è innocente.
Le Nazioni Unite hanno denunciato che i fronti in lotta hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Amnesty International ha raccolto testimonianze di donne stuprate ma a questo amaro strumento di guerra non sono sfuggiti neanche bambini e uomini. Il vaso di Pandora è stato aperto e l’uragano rischia di mandare a gambe all’aria il gigante africano con i suoi 120 milioni di abitanti, suddivisi in almeno 80 gruppi etnici.
Il rischio è quello dell’“effetto domino” in grado di travolgere i Paesi circostanti e avere riflessi anche in Europa con il probabile intensificarsi dell’arrivo di migranti sulle coste italiane. Gli Stati Uniti corrono ai ripari con la visita del segretario Antony Blinken in Africa per cercare di trovare sponde politiche in loco per fermare il conflitto. Sicuramente le ferite aperte in questo ultimo anno non saranno facilmente sanabili: tutti hanno avuto un parente o un amico vittima della violenza ed è destinato a durare nel tempo il confronto anche di fronte alla cessazione delle ostilità.
Ma già assistiamo al tramonto di Abiy Ahmed che ha premuto sull’acceleratore per estromettere gli esperti e combattivi tigrini mentre chiedeva un reciproco riconoscimento tra le etnie per pacificare il Paese. Ha cercato di favorire riforme, consentire il rientro di oppositori del governo nel Paese, dando prova di inesperienza nel tentativo di governare processi contraddittori. E non ha esitato a spalancare le porte del Tigray alle truppe eritree (l’ex nemico di ieri) per sedare i rivoltosi. Il Nobel per pace del 2019 è stato assegnato alla persona sbagliata.
Foto di © Hanna Grace via Unsplash
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana