di Giusi D'Urso.
Può apparire pertinente scrivere di una tavola rotonda intitolata “Fede e femminismi in Italia” nei giorni della ricorrenza dell’Immacolata concezione. Il fatto che uno Stato laico, quale l’Italia, celebri come festività la nascita senza peccato originale, resa dogma dalla Chiesa cattolica, di Maria madre di Gesù lascia perplessi o quanto meno dà da pensare. Permettendo di comprendere la pervasività di un certo immaginario femminile di matrice religiosa nella società italiana. Ben venga quindi un convegno che tenti una lettura ermeneutica interconfessionale della relazione fra fede e femminismi. Plurale a indicare la molteplicità di approcci.
La tavola rotonda si è svolta il 2 Dicembre a Bologna, organizzata dall’Osservatorio Interreligioso contro la violenza sulle donne (OIVD) in collaborazione con e presso la Fondazione di Scienze religiose Giovanni XXIII (FSCIRE). Ha rappresentato la quarta tappa di un ampio percorso sul tema “donne e religioni” iniziato nel 2015.
Divisa in due momenti, mattina e pomeriggio, ha visto come relatrici donne provenienti dalle principali confessioni religiose mondiali, Cristianesimo (cattolico e riformato), Ebraismo, Islamismo, Induismo, Buddhismo. Carla Galetto ha parlato per un cattolicesimo eterodosso, a testimoniare l’esperienza del Gruppo donne della Comunità di Base di Pinerolo, Sulamith Furstenberg per l’Ebraismo, la pastora Alessandra Trotta in rappresentanza delle Chiese riformate, Rukmina Devi per l’Induismo, Minoo Mirshahvalad per l’Islamismo. Infine Cecilia Waldkranz ha esposto le dinamiche al femminile nel Buddhismo.
Mediatrice Ludovica Eugenio direttore della rivista “Adista”. Mentre le introduzioni sono state per la mattina della teologa Cettina Militello del “Coordinamento delle Teologhe Italiane”, e per il pomeriggio di Paola Cavallari, presidente dell’OIVD. Significativo il sottotitolo, “la profezia delle donne, trascendenza ed esperienza nell’orizzonte di una fede incarnata”.
Profezia al femminile in un mondo delle religioni dominato ancora dal patriarcato, dall’abuso di potere maschile conseguenza di una storica e culturale visione androcentrica del divino. Essere profeti donne non indica tratteggiare un’ipotetica visione utopica proiettata in un immaginario futuro, bensì cogliere e valorizzare i segni di trasformazione che il presente offre. Essere segno incarnato di tale trasformazione. In ambito cristiano storicamente esistono esempi di profezia al femminile, a volte accettate dal sistema, in altre circostanze no. Personalità come Ildegarda di Bingen e Teresa d’Avila costituiscono esperienze approvate, Giovanna d’Arco rifiutate.
Forse “profezia” è un termine troppo connotato da un punto di vista storico. Potrebbe essere meglio parlare della ricerca di un senso altro fra le maglie del presente, della presenza di una verità altra che contraddica i potenti. Se il potere è definito dal patriarcato, in epoca contemporanea la nascita dei femminismi ha offerto quel nuovo senso cui si accennava. Le Comunità di base cristiane di donne testimoniano la pratica del femminismo militante dal basso attraverso un cammino di consapevolezza sul solco del “femminismo della differenza”, in Italia rappresentato dalla “Scuola di Diotima”, che fa della differenza fra i sessi la base per una società che ne riconosca i diritti.
Un femminismo che diviene intersezionale, per eliminare ogni pratica coloniale bianca ed eurocentrica e aprirsi oltre che alle differenze di sesso anche ad altre forme di discriminazione, quali quelle per etnia o orientamento sessuale. Investendo anche il discorso teologico che, in ambito cattolico, dopo il Concilio Vaticano II si è aperto alle donne. Apertura che ha costituito uno dei frutti più importanti del Concilio, anche se in Italia solo con la nascita nel 2003 del “Coordinamento delle Teologhe italiane” la voce delle donne ha iniziato ad avere un ruolo.
In modo diverso, sempre in Italia, nell’ambito delle Chiese della Riforma il cammino di inclusione è partito negli anni ’60 dove, ad esempio, nella Chiesa valdese le donne sono state ammesse al pastorato. In particolare nel 1962, mentre sono del 1967 le prime nomine di donne pastore. Ma in campo riformato il ministero non è una consacrazione legata alla figura del maschio sacerdote, bensì è prettamente connesso alla “Parola”, alla predicazione di essa e questo consente di far venir meno forme di autoritarismo al suo interno.
In generale nell’Ebraismo, oltre alle componenti riformate che da diversi anni si sono aperte alle donne rabbino, interessante il percorso dell’ala ortodossa che da qualche tempo ha intrapreso un percorso di riflessione per una maggiore inclusività delle donne. Per quanto riguarda l’Islam, la critica mossa al femminismo islamico è di aver cercato in una apparente purezza originaria del Corano, presuntamente tradita dalle successive interpretazioni, una capacità inclusiva che in realtà non ha. Il desiderio è quindi di giungere a una maggiore coscienza storica per aprirsi al femminismo contemporaneo.
Discorso diverso per Induismo e Buddhismo dove non si individuano vere pratiche femministe. In particolare il Buddhismo ha come propri perni “compassione” e “consapevolezza”, capacità tuttavia aperte a tutti indistintamente, non caratterizzanti uno specifico femminile. Come in ogni articolazione del mondo i sistemi sono complessi, e solo dal confronto e dalla intelligenza di interfacciarsi nascono nuove possibilità. Ne consegue l’utilità di convegni come quello di Bologna, anche per un processo di sensibilizzazione della società (o delle società trovandoci in una dimensione multiculturale) e delle stesse donne che non di rado sono le prime a emanciparsi con difficoltà da stereotipi introiettati culturalmente da generazioni. Il quadro generale che se ne può trarre non è sempre positivo, anzi, come espresso nell’introduzione pomeridiana da Paola Cavallari. Ma, parafrasando Gramsci, si potrebbe affermare il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.
Ph. © Massimo Lambertini