di Roberto Bertoni. Giornalista e scrittore
Ottant’anni fa si consumava la tragedia di Pearl Harbor, il terribile attacco giapponese alla flotta americana di stanza nel Pacifico che, di fatto, costrinse l’amministrazione Roosevelt, fino a quel momento riluttante, a entrare in guerra. Volendo leggere gli eventi storici con la lente del cinismo, potremmo dire che quella catastrofe fu un bene, in quanto indusse gli Stati Uniti a gettarsi nel conflitto, cambiandone per sempre il volto e le sorti. Non vogliamo neanche immaginare, infatti, cosa sarebbe potuto accadere se le potenze dell’Asse avessero prevalso, se il disegno hitleriano del Reich millenario si fosse concretizzato e se l’abisso di violenza e morte che esso aveva generato avesse travolto ulteriormente l’umanità.
Concentriamoci, piuttosto, sull’America, che otto decenni fa perse per sempre l’innocenza, dovendo fare i conti con una realtà che una parte della sua classe dirigente non ha mai accettato fino in fondo: l’isolazionismo non paga. Non si può essere, al contempo, la Nazione egemone, il gendarme del mondo e il trionfo dell’egoismo. Non ci si può chiudere quando dalle proprie scelte dipendono le sorti del mondo. Diciamo che, da questo punto di vista, le amministrazioni democratiche, da Wilson in poi, sono sempre state interventiste, a differenza dei paleo-conservatori repubblicani che, negli anni Venti, avevano sancito definitivamente la propria estraneità al resto del globo, salvo poi essere trascinati nel gorgo della Grande Depressione e doversi arrendere all’evidenza.
Pearl Harbor, col suo carico di morte e sofferenza, costituì una sveglia significativa per il Paese che stava cominciando a vivere il proprio ruolo di guida planetaria, lo rese cosciente della sua missione e lo indusse a sporcarsi le mani. Come diceva Enzo Biagi, del resto, voler bene all’America non significa condividerne sempre le scelte ma non dimenticarsi di ciò che ha fatto per noi, anche, aggiungo io, perseguendo i suoi interessi e le sue mire espansionistiche. Non c’è dubbio, infatti, che siano venuti a combattere per noi ma, innanzitutto, per i propri scopi, approfittando degli errori e dei crimini di un’Europa allo sbando: non più composta da grandi imperi coloniali e non più capace di vivere nel nuovo contesto internazionale. Un continente privo di identità: una lezione terribilmente attuale, con il sovranismo nazionalista a farla da padrone e il razzismo più dissennato che oggi produce drammi neanche comparabili con quelli di allora ma la cui matrice è identica.
Pearl Harbor disse, dunque, all’America che doveva compiere il passo decisivo verso la grandezza, che il suo secolo di dominio si sarebbe esplicitato solo se avesse preso le redini del conflitto e guidato in prima persona la resistenza e la controffensiva al nazismo. Indicò la rotta a chi ancora si illudeva di poter vivere nel mondo di ieri, risvegliò le coscienze, produsse uno shock di dimensioni talmente consistenti da non lasciare spazio ad alcuna forma di resistenza all’unica strada da seguire. Se vogliamo, riavvicinò le due sponde dell’Atlantico dopo un lungo e penoso allontanamento che aveva arrecato danni ingenti a entrambe le parti, condannando noi europei al totalitarismo e l’America alla solitudine del proibizionismo, del vizio nascosto inutilmente sotto il tappeto e dell’ipocrisia sparsa a piene mani in una società ormai allo sbando totale.
L’attacco dei kamikaze giapponesi, preceduto dal fallimento di ogni accordo diplomatico, rese evidente il desiderio nipponico di conquistare il proprio posto al sole, anzitutto a scapito della vicina e sempre odiata Cina, in un falò delle vanità che in pochi anni condusse l’impero del Sol levante alla distruzione totale, culminata nei lampi atomici su Hiroshima e Nagasaki, una delle più grandi aberrazioni della storia che chissà se Roosevelt, morto all’epoca da poche settimane, avrebbe mai ordinato, come invece fece Truman. Il Giappone, tornando all’argomento di quest’articolo, inseguì i propri sogni di gloria attraverso politiche spregiudicate e sempre più feroci, rinsaldando l’asse con i regimi europei e pensando di poter esercitare indisturbato la propria politica di potenza nella regione asiatica. Fu come se volesse lanciare la sua sfida, dimostrando al mondo di poter combattere con sprezzo del pericolo anche contro paesi più grandi e attrezzati, e subì conseguenze atroci per il proprio atto di insostenibile hybris.
Pearl Harbor, nel contesto della Seconda guerra mondiale, e se vogliamo dell’intera storia del Novecento, costituisce uno spartiacque. Esiste, sostanzialmente, un prima e un dopo, e quel dopo costituisce la nostra storia negli ultimi otto decenni. Una storia con molti aspetti controversi, con infiniti deficit democratici, una storia in larga misura sbagliata, contraddittoria e persino pericolosa; tuttavia, abbiamo la certezza che il corso degli eventi sarebbe stato ben peggiore qualora avesse davvero prevalso il fronte della barbarie assoluta, di cui il Giappone all’epoca era uno dei massimi sostenitori. Non vogliamo parlare, con insopportabile retorica, di parte giusta e parte sbagliata della storia; fatto sta che, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, ci siamo conquistati un inferno assai migliore di quello in cui saremmo stati costretti a vivere se nessuno avesse contrastato con la dovuta efficacia la potenza soverchiante della Germania nazista e dei suoi alleati. Nell’impresa ebbe un ruolo di primo piano la Russia di Stalin: la si può pensare come si vuole sul discutibile georgiano, ma anche senza l’impegno attivo dei russi la guerra avrebbe avuto un esito diverso e, sicuramente, peggiore.
Sarebbe eccessivo definire Pearl Harbor il primo atto della Guerra fredda che avrebbe scandito i quattro decenni successivi. Non è eccessivo, invece, sostenere che ebbe ricadute globali enormi e che pose ciascun interprete al suo posto, indicando ai vari attori il ruolo che avrebbero dovuto interpretare e favorendo lo sviluppo di molteplici scenari.
Ottant’anni dopo siamo chiamati a compiere un bilancio di quell’azione, stando attenti a non scadere nella disumanità, a non ignorare le vite perdute su ogni fronte, a non ridurre tutto a tattica o strategia militare o geo-politica, a non abbrutirci più di quanto già non lo siamo e a considerare i molteplici aspetti di una vicenda che non può essere liquidata in poche parole. Siamo, però, chiamati anche a non perdere di vista la saggezza del presidente Roosevelt, delle sue intuizioni e del suo rifiuto di ogni populismo. Seppe fare gli interessi americani e, in parte, anche i nostri. Ribadisco: voler bene all’America non significa condividerne sempre le scelte, che anzi ci hanno visto spesso in disaccordo, ma non dimenticarsi che senza quella battaglia dalla stessa parte della barricata, oggi non potremmo star qui a discutere liberamente di ciò che è stato e di ciò che sarà. Per il semplice motivo che non disporremmo di alcuna libertà democratica.
Immagine © National Museum of the U.S. Navy/ Wikimedia Commons
Roberto Bertoni
Giornalista e scrittore