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Reddito di cittadinanza e immigrati, una misura diseguale

di Maurizio Ambrosini

di Maurizio Ambrosini. Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano.

Gli immigrati in Italia secondo l’Istat hanno un tasso di povertà assoluta del 29,3% (dato 2020), quattro volte quello degli italiani. In questa condizione vivono 300.000 famiglie immigrate con figli minorenni. La legge sul reddito di cittadinanza richiede però dieci anni di residenza per potervi accedere, tagliando fuori gran parte degli immigrati che ne avrebbero un bisogno letteralmente disperato: è il requisito legale più alto al mondo, come ha osservato Chiara Saraceno, presidente del comitato scientifico incaricato di valutare la misura. D’altronde chi ha un po’ di memoria ricorderà che nel 2018 il leader dei proponenti aveva rassicurato alleati e sostenitori specificando che si trattava di una misura studiata per andare incontro alle necessità della popolazione italiana, ossia che avrebbero fatto in modo di escludere gli stranieri. L’unica povertà a cui porre rimedio era quella nazionale, come se l’indigenza fosse più o meno grave a seconda del passaporto. Nel momento in cui scriviamo non è certo che passi la riduzione a cinque anni proposta nell’ambito della legge finanziaria. Il tema, come si sa, è politicamente divisivo, e il governo Draghi barcolla sotto le spinte della sua composita maggioranza.

Il principale argomento brandito contro l’inclusione degli stranieri nelle misure di contrasto alla povertà consiste nell’asserita mancanza o scarsità di contribuzione all’erario pubblico: in altri termini, gli immigrati eroderebbero un welfare a cui non hanno contribuito, o troppo poco. È una narrazione vittimistica, smentita dalla stima pubblicata dal Dossier statistico immigrazione 2021

(sostenuto fra l’altro dall’otto per mille della Tavola valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi): gli immigrati hanno versato nel 2019 29,25 miliardi alle casse dello Stato, tra contributi previdenziali, Irpef, Iva, accise sulla benzina e altre voci. Va ricordato che anche nel 2020, anno di crisi pandemica, 2,35 milioni di stranieri sono risultati regolarmente occupati in Italia, concorrendo per oltre il 10% all’occupazione complessiva, con tutto ciò che ne consegue in termini di ricchezza prodotta, consumi, benefici fiscali. Allo Stato italiano sono costati per contro 25,25 miliardi, con un saldo quindi di 4 miliardi a favore del fisco. Gli immigrati, mediamente più giovani degli italiani, pesano molto meno dei nativi sulle due voci principali della spesa sociale: le pensioni (solo il 4% ne gode, per una spesa di circa un miliardo) e la sanità, soprattutto in termini di ricoveri ospedalieri (7,4 miliardi di spesa).

Ci si può chiedere perché tanta povertà tra gli immigrati. Le ragioni sono molteplici. Anzitutto, le loro occupazioni si concentrano nel settore privato, e spesso in attività molto esposte alle fluttuazioni dei mercati: l’edilizia in testa, come pure l’industria manifatturiera, i servizi alberghieri, la ristorazione. Quando arriva una crisi, gli immigrati ne risentono più degli italiani.

In secondo luogo, gli immigrati sono seguiti come un’ombra dall’obbligo morale di inviare rimesse ai congiunti rimasti nei Paesi di provenienza. Rappresentano il precario welfare delle famiglie di origine, l’assicurazione contro malattie, disoccupazione, catastrofi naturali. Pressati dalle necessità dei congiunti, trattengono pochi risparmi. Anche da questo punto di vista, un rovescio della situazione economica rischia di compromettere percorsi d’integrazione apparentemente ben avviati. Per contro gli immigrati non possono contare sulle pensioni di genitori e nonni, la grande risorsa sommersa che ha consentito a molte famiglie italiane di scampare ai morsi delle ormai ricorrenti e ravvicinate recessioni. La mancanza fisica dei nonni rappresenta poi un vincolo per la partecipazione al lavoro delle madri immigrate con figli piccoli, essendo essi la scialuppa di salvataggio delle famiglie anche sul versante delle necessità di accudimento.

È quasi superfluo infine ricordare le molteplici discriminazioni subite dagli immigrati, come mostra proprio la vicenda del reddito di cittadinanza.

Ci sono momenti in cui alla politica viene chiesto uno scatto di coraggio, la capacità di prendere in carico i problemi sociali anche a costo di pagare dei prezzi in termini di popolarità e di consenso. Siamo in uno di questi passaggi, destinati a lasciare un’impronta sulla qualità della nostra convivenza civile.

Ph. © Tim Marshall

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Maurizio Ambrosini

Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano

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