di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova
Intervista a cura di Claudio Paravati (Direttore Confronti)
Torneremo a viaggiare: il libro sembra nato dalla necessità di pensare il mondo a partire dal Covid. Torneremo a viaggiare… perché ora ci siamo dovuti fermare! È questo il motivo del libro? Il bisogno di pensare, capire, quello che sta accadendo?
Ho progettato il libro in pieno lockdown, riflettendo su mobilità umana e migrazioni, temi che mi accompagnano da decenni. Il paradosso del Covid è stato questo: che abbiamo dovuto smettere di muoverci, e rinchiuderci in casa, perché si è messo a circolare lui, il virus, costringendoci all’immobilità. Ma l’essere forzosamente fermi è diventata la condizione ideale per riflettere sulla nostra normalità nomade. Da un lato ci siamo accorti di quanta mobilità inutile praticavamo: lo smart working (più semplicemente il lavoro da casa, non necessariamente smart), ha reso evidente l’inutilità di tanto pendolarismo e tanti viaggi per riunioni – una situazione da cui non torneremo più indietro. Ma venivamo anche da un periodo di accelerazione assurda del movimento di tutto: informazioni, denaro, merci, ma anche persone. Noi pensiamo solo alle migrazioni, ma ogni anno si frantumavano i record legati al turismo (che negli ultimi anni pre-Covid è cresciuto a ritmi superiori al commercio mondiale!), ai voli transnazionali (centomila di più all’anno in era pre-Covid), ci muovevamo di più per motivi legati al lavoro, al divertimento, alla cultura, o anche solo perché non sappiamo cosa fare, e ci sembra che andare altrove dia un senso al nostro tempo. Dall’altro l’impossibilità di muoversi ha reso evidente il nostro bisogno fisico e psicologico di farlo: e questo mi ha fatto molto riflettere sulla nostra propensione al nomadismo, nelle sue varie forme, e sui bisogni legati ad esso. La mia riflessione – riprendendo in mano la storia dell’umanità dalle origini, le teorie sociologiche sulla mobilità, fino ai libri di nomadi moderni come Chatwin – è partita da lì.
Garanzie, genere, generazioni: le tre “g”, le tre fratture della disuguaglianza che oggi si fanno più profonde nel mezzo della pandemia.
Questo per me è un modo per spiegare che le ragioni della mobilità, con la pandemia, non sono diminuite. Al contrario, essa stessa ha prodotto ulteriori diseguaglianze (tra garantiti e non garantiti, tra generi, e tra generazioni), o ha aggravato le precedenti, ponendo le condizioni perché, a breve termine, le migrazioni, in particolare, riprendano alla grande (e per il nostro Paese penso più alle partenze che agli arrivi, alle migrazioni in uscita che a quelle in ingresso, già da qualche anno preponderanti, anche se pochi se ne accorgono). Ci saranno altri tipi di controlli, i passaporti sanitari diventeranno temporaneamente più rilevanti di quelli nazionali (il che ha un interessante rilievo simbolico), ma la storia delle migrazioni – e della mobilità per altri motivi (ci si prepara già a nuove Expo, campionati mondiali, Olimpiadi, fiere e altri eventi globali in presenza) – non è finita, e al contrario vedrà presto nuove accelerazioni.
Il libro suona come un inno a pensare in profondità il movimento: quello migratorio non ne è che solo una delle forme. Movimento, come storia, come biografia, come mito fondativo… È come se si rendesse necessario ripensare in profondità la natura stessa del movimento, per poterne riparlare. È così?
Sì, è così. Noi pensiamo il movimento, di solito, per compartimenti stagni: le migrazioni, il turismo, il pendolarismo, le vacanze, il trasporto merci, come se non avessero niente in comune. Invece sono parte dello stesso fenomeno sociale globale, e della medesima propensione. Dall’uscita dall’Africa dei Neanderthal e poi dei Sapiens agli expat (passando per le colonizzazioni, le invasioni di conquista, i viaggi di scoperta, i commerci transnazionali, le Storie di Erodoto e Il milione), dalla mitologia (l’epopea di Gilgamesh e Odisseo, senza dimenticare Enea, fato profugus e straniero fondatore della patria italica) ai libri sacri (dalla cacciata dal giardino dell’Eden – il primo push factor – all’Esodo e alla predicazione itinerante di Gesù, dalle peregrinazioni del Buddha all’Egira di Muhammad con cui nasce la storia islamica, passando per la propensione missionaria e il ruolo del pellegrinaggio nelle religioni), la storia umana è una storia di mobilità. Se la facessimo pari a 24 ore, ci vedrebbe nomadi per 23 ore e 55 minuti, stanziali e urbanizzati per quasi 5 minuti, con una ripresa e prepotente accelerazione nell’ultima manciata di secondi, grazie a fattori tecnici come il costo minore, la maggiore velocità e sicurezza dei viaggi, la diminuzione delle loro conseguenze “estranianti” grazie allo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, l’uscita dalla povertà di fasce sempre più ampie del mondo. Del resto, come diceva Pascal, «la nostra natura è nel movimento: il riposo assoluto è la morte». E Robert Park, fondatore della scuola sociologica di Chicago, aggiungeva che «la mente è un prodotto accidentale della locomozione». Il nostro modo di ragionare e di leggere il mondo è inestricabilmente legato alla mobilità. Nemmeno limitata al pianeta terra, per altro. A breve, anche verso lo spazio.
A un certo punto dice che «nella nostra società cambia tutto, perché puoi scegliere, ma se puoi scegliere devi porti delle domande, sul senso e sul perché delle tue scelte, e analizzare le opzioni a disposizione, per trovare le risposte. La quantità di incertezze rispetto alle certezze è aumentata esponenzialmente». Siamo di fronte a un cambio di velocità dunque? Se il contesto si fa sempre più “prestazionale”… non presenterà il conto sulla salute delle persone?
Dover scegliere, non dare più per scontato che le cose abbiano una sola risposta (quella che ci viene dal passato, dalle tradizioni, dai genitori…) è sicuramente un’attività stressante. Nondimeno, è la condizione della nostra stessa libertà e autonomia, a cui non rinunceremmo volentieri. Non è facile trovare un orientamento, una bussola, le istruzioni per l’uso. E tuttavia è questa la condizione umana oggi, e sarà sempre più così domani. Questo apre a margini di sperimentazione sociale straordinari. Talvolta anche inquietanti. Ma ricchissimi di potenzialità. Non mi fa paura l’aumento delle opzioni a disposizione. Mi fa paura solo la nostra rinuncia a gestire la complessità e le sue variabili. Ma può essere altrimenti. E mi pare che le generazioni più giovani lo stiano capendo.
Se lei fosse ministro – come scrive in un capitolo del libro – cosa farebbe se avesse il potere politico di farlo realizzare? Ci riassuma i punti principali.
Ho voluto mettere un capitolo di proposte di gestione delle migrazioni, molto dettagliate, perché spesso si dice che è facile criticare (o anche solo analizzare), più difficile fare, gestire. Ma non c’è niente di ineluttabile in quanto accade. In passato gli Stati se ne occupavano maggiormente. È da quando abbiamo chiuso i confini alle migrazioni regolari che sono aumentate esponenzialmente quelle irregolari. Dunque si tratta di ricominciare da quello che già facevamo in passato, migliorandolo e adattandolo ai tempi e alle nuove migrazioni. Nel libro alcune linee guida sono indicate in dettaglio, capitolo per capitolo: dagli accordi con i Paesi di partenza alle politiche di integrazione, e sono elencati i vantaggi, molto superiori ai costi, anche economici. Per il dettaglio rimando al libro. È importante tuttavia passare il messaggio che le migrazioni si possono gestire, e che ciò è vantaggioso per tutti. Dire che si è contro e non fare nulla non è un’opzione. Possiamo gestire tutto, dall’innovazione tecnologica alla pandemia, dall’istruzione alle politiche industriali. Sarebbe ben strano se non riuscissimo a gestire le migrazioni, che non sono più complesse di altre questioni. Se non accade è per incapacità o ideologia, non per impossibilità. Io voglio mostrare una strada alternativa, razionale e percorribile, basata sulla razionalità e non solo sui sentimenti, sui vantaggi reciproci e non solo sui diritti.
Torneremo a percorrere le strade del mondo è un titolo che scalda il cuore, ci dà speranza. Il penultimo libro aveva come titolo La spirale del sottosviluppo, tutt’altro che ottimistico come titolo. I due libri in realtà si assomigliano: sono capitoli, così li descriverei, dello stesso sguardo. Dati, analisi, prese d’atto della realtà, ricerca di chiavi di lettura e addirittura di proposte per gestire, cambiare, migliorare. Ottimismo o pessimismo? Ci aiuti a capire.
È vero: i due libri si completano, e non a caso i rimandi si sprecano. Il libro precedente cercava di inquadrare i movimenti di popolazione (immigrazioni ed emigrazioni) collegandoli tra loro e con demografia, livello di istruzione del Paese, mercato del lavoro. Perché i fenomeni non si capiscono da soli, ma nelle loro interrelazioni reciproche. E, sì, il risultato era abbastanza pessimistico rispetto alla capacità di farlo (tutto questo avveniva prima del governo Draghi, del PNRR, del colpo di reni, in parte inaspettato, dell’Europa). L’analisi resta attualissima, nel fotografare diseguaglianze e debolezze strutturali del Paese: la capacità di reazione è tuttavia migliorata (non a caso il sottotitolo era “Perché (così) l’Italia ha futuro”: se va avanti così, appunto, se non si cambia). In questo ultimo libro ho voluto invece inquadrare le migrazioni nel contesto più generale delle mobilità (umane, di merci, denaro, idee…). Il metodo è lo stesso, applicato a variabili diverse. Questo è stato l’unico caso, nella mia vita, in cui il titolo è nato prima del libro. Eravamo impossibilitati a muoverci, chiusi letteralmente in casa. Ho voluto provare a ragionare su quanto sarebbe durata, e cosa sarebbe successo dopo. Trent’anni di studi su questi temi mi hanno spinto a dare una risposta ragionata, per niente illusoria. Continueremo a muoverci. Ma diversamente. Forse con maggiore consapevolezza.
Stefano Allievi
Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova