di Raul Caruso. Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.
Da qualche tempo il peacekeeping gode di cattiva fama poiché molti ricordano vividamente gli errori compiuti a Srebrenica o in Rwanda e le relative conseguenze umanitarie. Tuttavia, le iniziative di peacekeeping in molti casi hanno contribuito in maniera efficace alla risoluzione di conflitti civili e alla riduzione della violenza a danno dei civili e delle popolazioni residenti e potrebbe rappresentare nei prossimi anni un terreno di competizione ma anche di cooperazione tra le grandi potenze.
Le evoluzioni delle relazioni internazionali in molti casi si spiegano anche con gli avanzamenti ovvero i cambiamenti in quelle che sono le interpretazioni e le percezioni di informazioni rilevanti a disposizione della classe dirigente ma anche dei cittadini. Il peacekeeping, ad esempio, gode di cattiva fama poiché molti ricordano vividamente gli errori compiuti a Srebrenica o in Rwanda e le relative conseguenze umanitarie. In virtù di tale cattiva fama, il sostegno alle iniziative di peacekeeping negli Stati Uniti è molto basso e quindi non è un caso che il supporto americano “nanziario sia diminuito di circa il 40% tra il 2015 e il 2018 facendo diminuire di molto il budget a disposizione in sede Onu.
La sfiducia americana in efetti si è accresciuta in maniera ulteriormente durante l’amministrazione Trump. È evidente, però, che tale sfiducia sia immotivata poiché è dimostrato da diversi studi che le iniziative di peacekeeping in molti casi hanno contribuito in maniera efficace alla risoluzione di conflitti civili e alla riduzione della violenza a danno dei civili e delle popolazioni residenti.
Basti pensare che dalla fine della Guerra fredda l’Onu ha cercato di risolvere 16 conflitti civili per mezzo di missioni di peacekeeping e di queste almeno 11 possono essere considerate un successo (tra queste ad es. Liberia, Costa d’Avorio, Namibia e Timor Est). In ogni caso, il peacekeeping potrebbe rappresentare nei prossimi anni un terreno di competizione ma anche di cooperazione tra le grandi potenze. A differenza degli Stati Uniti, infatti, la Cina sembra seguire una strategia di maggiore partecipazione e sostegno delle agenzie e delle iniziative multilaterali in sede Onu.
Questo fatto pone l’amministrazione americana di fronte a una scelta decisamente rilevante. Se da un lato la partecipazione a istituzioni e agenzie multilaterali determina vincoli e costi anche di natura reputazionale, dall’altro la mancata partecipazione lascia nelle mani di rivali strategici uno strumento che, seppur perfettibile, può costituire un canale legittimo di influenza nell’ambito della comunità internazionale. Paradossalmente rispetto al peacekeeping la scelta appare problematica in virtù del fatto che essa è una scelta “poco costosa” e non viceversa. In altre parole, la decisione di partecipare a iniziative di peacekeeping ha costi più bassi sia in termini finanziari sia in termini di risorse umane rispetto ad altri tipi di interventi militari di stabilizzazione.
Gli Stati Uniti hanno speso più di 2 trilioni di dollari dopo l’11 settembre per le operazioni militari ma, secondo un report recente, contribuiscono al budget per il peacekeeping con una somma che è equivalente a un quarto del budget annuale del dipartimento di polizia di New York. Il peacekeeping, pur poco costoso, determina comunque vincoli e opportunità. Alla luce di questo fatto, infatti, sarà agevole e razionale per altre potenze come la Cina partecipare e contribuire maggiormente alle iniziative Onu di peacekeeping poiché sostenendo costi ridotti accresce in ogni caso la propria influenza in ambito internazionale.
Per quanto possa apparire paradossale, quindi, la vera strada da seguire per riformare il peacekeeping è renderlo più “costoso”. Se ragionassimo secondo un meccanismo razionale tipico della teoria dei giochi potremmo dire che in mondo non cooperativo caratterizzato da sfiducia, uno dei modi per rendere la cooperazione più stabile è quella di renderla più “costosa” in senso ampio. Maggiori sono i costi che ogni governo decide di sostenere, più credibile sarà il segnale che sarà lanciato agli altri attori. Nel caso del peacekeeping, quindi, sarà razionale intraprendere una politica di riforma che lo renda più stabile e foriero di obbligazioni più costose.
I membri permanenti del Consiglio di sicurezza dovrebbero stabilire tra i propri obiettivi una linea comune di questo tipo. Se è vero che tale strategia, quantomeno inizialmente, potrà funzionare in particolare per confitti in cui le grandi potenze hanno interessi non divergenti, è anche vero che un rafforzamento e una migliore strutturazione delle operazioni di peacekeeping può rappresentare un volano per il miglioramento della cooperazione tra esse.
Ph. © United Nations Photo/ flickr

Raul Caruso
Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.