di Redazione Confronti
Si è svolta ieri, giovedì 27 gennaio alle 18.00, presso il Cinema Troisi (via Girolamo Induno, 1 – Roma), grazie alla collaborazione tra la Rivista e Centro Studi Confronti e il Piccolo America, la presentazione del film Quel giorno tu sarai, diretto dal regista ungherese Kornél Mundruczó, già autore di Pieces of a Woman, premiato a Venezia con la Coppa Volpi per l’interpretazione di Vanessa Kirby e candidato all’Oscar nel 2021.
Il film riflette su memoria e identità raccontando la storia di una famiglia che, attraverso tre generazioni si confronta con l’eredità della Shoah, a partire dal ritrovamento surreale della piccola Éva in un campo di concentramento, che trae spunto da un romanzo di Imre Kertész, fino ad arrivare alla vita del nipote Jonas e di sua madre nella Berlino contemporanea.
La storia è ispirata da quella madre e dalla famiglia della sceneggiatrice Kata Wéber, intervenuta in diretta streaming al dibattito che ha preceduto la proiezione del film. «Ho perso mia madre di recente, durante le riprese del film, quindi all’interno ci sono molti riferimenti a lei. Tuttavia il mio obiettivo non era parlare del passato, ma interrogarmi sulla questione dell’identità nella società contemporanea. L’identità è fluida e in continuo cambiamento, non è qualcosa che si acquisisce al momento della nascita e resta tale ma è in continuo divenire. Allo stesso modo un trauma legato a qualcosa che non abbiamo vissuto e che si tramanda tra le generazioni è qualcosa di intangibile e surreale perché ha una grande influenza sulla nostra esistenza anche se non lo abbiamo sperimentato direttamente. È un’ombra che ci segue costantemente, ma che non siamo noi perché viene dalla terra dell’ignoto».
La perdita della trasmissione della memoria della Shoah nel momento in cui scompaiono tutti i suoi testimoni viene raccontata in Olocaustico (Giuntina, 2019), il romanzo di Alberto Caviglia, che affronta il tema in una chiave singolare. «Olocaustico trova la sua ragion d’essere in uno studio statistico dell’Osservatorio Antisemitismo secondo il quale in Italia nel 2004 il 2,7% dei cittadini non credeva all’esistenza della Shoah. Percentuale che nel 2020 è arrivata al 15,9%. Un dato agghiacciante che testimonia che stiamo perdendo una battaglia contro il negazionismo, e contro chi cerca di ridimensionare e mettere in discussione l’esistenza della Shoah. Il libro affronta questo tema con la satira, un’operazione che nasce da una parte dall’aumento esponenziale di fake news, e di contenuti velenosi a cui la gente dà sempre più credito, perché siamo in un’epoca in cui falsificare la storia è facile con i social network. Dall’altra parte stanno scomparendo gli ultimi testimoni oculari della Shoah, che sono l’ultimo antidoto possibile contro l’orda che cerca di attaccare il fondamento della realtà storica della Shoah e sta riuscendo a minare e decostruire la memoria. Si tratta di una distopia in cui questi due fattori sono esasperati, ma appare come una scena realistica per i prossimi anni. In questo libro non scherzo sulla Shoah ma su chi la strumentalizza usando le sue stesse armi. E la scelta di affrontare un tema come questo con un registro ironico è dettata dal fatto che, senza rinunciare a una narrazione classica della Shoah, bisogna fare il tentativo di coinvolgere un pubblico diverso in modo alternativo, anche attraverso una risata che veicola un messaggio importante».
Raffaella di Castro, autrice di Testimoni del non-provato. Ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione (Carocci, 2008) ragiona a sua volta sulla questione della trasmissione dell’eredità della Shoah tra le generazioni. «Più che un libro è un percorso della memoria in cui si sviluppa una presa di coscienza del vissuto e del non vissuto. Questa esperienza accomuna tutti i coetanei ebrei che ho intervistato per il libro, in cui le memorie tornano ossessivamente come esperienze vissute direttamente, come se fossi io la bambina che deve nascondersi e cambiare nome, come se in culla mi avessero detto che il prigioniero ad Auschwitz ero io. Il primo passaggio è stato prendere coscienza del fatto che la bambina che si doveva nascondere non ero io, ma mia madre, e le conseguenze che tutto questo aveva avuto sulla mia persona. Il rischio era quello di avere una memoria emotiva e traumatica, ma vuota di informazioni. Questa elaborazione della memoria è in dialogo con 23 interviste a ebrei nati tra gli anni ‘60 e ‘80 in cui le memorie biografiche si intrecciano con riflessioni storiche, filosofiche e psicoanalitiche a partire dalla domanda fondamentale, ovvero perché è importante e un dovere ricordare la Shoah e perché la memoria della Shoah è esemplare per le riflessioni sulla memoria. Come spiega Primo Levi è un dovere collettivo ricordare la Shoah perché è stata essa stessa un tentativo di distruggere la memoria, una guerra contro la memoria».
Ha preso parte al dibattito anche giornalista e scrittrice Lia Tagliacozzo, autrice di diverse pubblicazioni tra cui La generazione del deserto (Manni, 2020) in ha raccontato la storia della sua famiglia. «Ho iniziato a ricostruire questa storia da quando ero bambina, poi questa ricerca è andata avanti per tutta la vita. Ho scoperto solo in adolescenza che mio padre aveva una sorellina di 8 anni che era stata deportata e uccisa ad Auschwitz, di cui non avevo mai saputo nulla. Una “congiura del silenzio” che definisco amorevole perché ha consentito a me, mia sorella e mio fratello di crescere serenamente, nonostante qualche ombra. Poi l’irruzione della scoperta di questa bimba ha cambiato qualcosa dentro di me. Non è un caso che io abbia iniziato a parlare di Shoah in un libro per bambini, proprio per un desiderio di sostituire il silenzio con un racconto compiuto con le parole giuste per un bambino. Pur considerando questo silenzio generoso, una sorta di congiura d’amore a tutela reciproca, per proteggere da un ricordo doloroso, credo che la necessità di ricostruire la storia sia importante e impellente. Questa ricerca costante è sfociata in un bisogno di scrittura che mi ha permesso di colmare i buchi del non detto, e tirare le fila di tutto creando un racconto compiuto».
In chiusura è stato proiettato un videomessaggio inviato dalla scrittrice ungherese Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di concentramento e vincitrice Premio Strega Giovani 2021 con il romanzo Il pane perduto (La nave di Teseo, 2021). Custode di una memoria preziosa, la scrittrice si fa portavoce del suo passato non solo nei suoi libri, ma anche nelle scuole da oltre sessant’anni, dove porta alle nuove generazioni la testimonianza viva di una storia che non bisogna dimenticare.
Ph. © Nadia Addezio