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L’eterna fuga del popolo curdo

di Francesca Bellino

di Francesca Bellino. Giornalista e scrittrice

Sono passati 23 anni dall’arresto di Abdullah Öcalan, fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, rifugiatosi in Italia dopo aver vissuto in esilio in Siria dal 1980 e la condizione dei curdi che vivono in Italia è ancora sommersa.

La vita del popolo curdo è un susseguirsi di aspettative deluse, persecuzioni, desiderio e timore di affermare la propria identità e un’eterna erranza in cerca di protezione. Anche chi trova un luogo sicuro dove vivere spesso è costretto a lasciarlo, come è accaduto a molte famiglie curde stabilitesi in Italia che negli ultimi anni sono ripartite per cercare condizioni di vita migliori al Nord Europa. Con l’emergenza Covid la situazione economica di molti curdi titolari di diritto d’asilo si è aggravata e in tanti sono partiti perpetuando la condizione della perenne fuga inflitta al popolo curdo in oltre cento anni di lotte per il riconoscimento di un’identità nazionale e di un territorio, la regione del Kurdistan racchiusa fra Turchia, Iran, Iraq e Siria. 

Non è possibile stabilire con esattezza il numero dei curdi presenti oggi in Italia poiché questi non vengono registrati in quanto tali ma come cittadini dei Paesi di provenienza, quindi come turchi, iracheni, siriani o iraniani, ma è accertato che il numero si sia assottigliato negli ultimi due anni a causa della penuria di lavoro aggravata dall’allarme sanitario. I curdi nel mondo sono circa 35 milioni. Sono la più grande popolazione senza Stato. Il legame con l’Italia si crea alla fine degli anni ’90, quando il nostro Paese diviene terra di transito per i curdi che fuggono dalle violenze e le torture inflitte loro dall’esercito turco in reazione alle richieste di autonomia e di maggiori diritti civili e politici. Una serie di eventi susseguitisi tra il 1997 e il 1999 porta sia la “questione curda” al centro del dibattito politico italiano, sia l’Italia al centro dei riflettori internazionali.  

Si inserisce in questa storia la figura dell’attivista Dino Frisullo che il 21 marzo del 1998 si trova a Diyarbakır, in Turchia, con una delegazione italiana di venticinque pacifisti per festeggiare il Newroz, il capodanno curdo. Quando la celebrazione si trasforma in un corteo per rivendicare i diritti fondamentali per i curdi, la polizia turca interviene per reprimerla e arresta un centinaio di manifestanti con l’accusa di istigazione alla violenza, tra i quali Frisullo. Dopo due mesi di prigionia, torture e uno sciopero della fame, una campagna di opinione sostenuta dal Governo italiano e dal Parlamento Europeo porta alla sua scarcerazione. Ritroviamo Frisullo sulle pagine dei giornali a dicembre dello stesso anno quando intraprende un digiuno di protesta per sostenere la richiesta di asilo politico per Abdullah Öcalan, fondatore del Pkk nel 1977, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, rifugiatosi in Italia dopo aver vissuto in esilio in Siria dal 1980. 

La cattura di Öcalan

Il leader del PKK, partito considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e, fino al 2018, anche dall’Unione Europea, arriva a Roma da Mosca il 12 novembre e chiede asilo politico al Governo all’epoca presieduto da Massimo D’Alema. Il premier italiano si trova di fronte a un caso che definisce “difficile da risolvere”. Le cronache di quei giorni ci dicono che la richiesta di asilo non viene accolta e Öcalan viene portato all’ambasciata greca a Nairobi, in Kenya. Qui, all’aeroporto, il 15 febbraio 1999 viene arrestato e portato in Turchia dove, in aprile, viene condannato a morte da un tribunale turco, pena poi nel 2002 commutata in ergastolo nell’isola-carcere di Imrali

Il suo arresto fa esplodere proteste in tutto il mondo, anche in Italia dove questo episodio resta come “una ferita aperta” per i sostenitori della causa curda. Per supportare il loro leader e “per protestare contro le pressioni esercitate sull’Italia dallo stato turco” intanto erano arrivati a Roma circa 1500 richiedenti asilo curdi accampatisi in baracche di cartone nei giardini di Colle Oppio, al Celio, vicino l’ospedale militare dove Öcalan era stato ricoverato prima di lasciare l’Italia. 

Sono passati 23 anni da quei giorni e sabato 12 febbraio 2022 alle 14, la comunità curda d’Italia torna in piazza con due cortei, uno a Roma (piazza Esquilino) e uno a Milano (Largo Cairoli), «per chiedere nuovamente la liberazione di Öcalan e per raccogliere le firme per reclamare la rimozione del Pkk dalla liste delle organizzazione terroristiche con lo scopo di rimettere in moto un processo di pace». 

«Quando Öcalan fu ricoverato l’area di Colle Oppio venne chiamata Cartonia» ricorda Ramazan Gunes, responsabile dal 2016 al 2020 di Ararat, il centro socio-culturale curdo sorto a Roma sempre nel 1999, esattamente il 21 maggio quando l’edificio abbandonato dell’ex veterinario di Campo Boario viene occupato e, un mese dopo, diventa il fulcro della sperimentazione di una forma di spazio pubblico fondata sull’accoglienza e sulla convivenza in cui integrare arte, solidarietà e trasformazione urbana. Nel mese di giugno, in occasione della Biennale dei giovani artisti d’Europa e del Mediterraneo, ospitata dall’adiacente ex Mattatoio dimesso dal 1975, il collettivo di architetti Stalker avvia una serie di iniziative socio-artistiche coinvolgendo la comunità curda e dall’esperienza nascono la sala da tè, la cucina, la sala di lettura di Ararat. Sempre in quei giorni comincia la realizzazione della monumentale opera Il Tappeto Volante che riproduce il profilo ligneo del soffitto della Cappella palatina di Palermo. Per mesi Ararat si trasforma in un luogo di creazione. L’opera viene realizzata con 50 km di canapa e 6 km di rame, viene esposta in 18 Paesi e diventa simbolo di fratellanza. Ancora oggi si può ammirare una miniatura dell’opera ad Ararat, mentre quella originale si trova al Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina

«In vent’anni da qui sono passati oltre 30mila curdi. Molti sono solo in transito. Fanno richiesta di asilo e vanno a vivere in altri Paesi. Altri ci hanno abitato per anni e poi sono partiti. Ora sono rimasti in pochi. Cinque persone fisse, più altre tre o quattro di passaggio. Tanti curdi si erano stabiliti in Toscana, ma oggi delle 70 famiglie che abitavano tra Castel del Piano, Livorno e Siena ne sono rimaste la metà» racconta Ramazan, 44 anni, arrivato da Karakoçan, nel Kurdistan del nord. 

«Nel 2016 il Comune di Roma non ci ha rinnovato la concessione, ma noi continuiamo a pagare l’affitto. Abbiamo fatto ricorso alla richiesta di sgombero. Non ce ne andremo – aggiunge Ramazan –. Svolgiamo il ruolo di un’ambasciata, siamo punto di riferimento per i curdi. In questo luogo sono custoditi 20 anni di storia».

Il centro culturale Ararat a Roma

Quando si arriva ad Ararat, il cui nome si rifà al monte leggendario sul quale si arenò l’Arca di Noè scampata al Diluvio universale, si viene accolti dalla targa “Largo Dino Frisullo”, inaugurata il 20 giugno 2007 da Walter Veltroni, all’epoca sindaco di Roma, in onore dell’attivista scomparso prematuramente per malattia nel 2003. Quando si entra nell’area l’occhio è subito catturato dai colori del Kurdistan – giallo, rosso e verde –, che brillano sui murales sulla parente che la delinea. Al centro primeggia il volto di Öcalan, mentre a destra, tra gli altri, troviamo Lorenzo Orsetti, detto Orso, ucciso a 33 anni nel conflitto in Siria contro l’Isis a marzo 2019, e a sinistra quello di Hevrin Khalaf, segretaria generale del Partito siriano del Futuro e attivista dei diritti delle donne uccisa a 35 anni durante un’imboscata a ottobre 2019. Subito dopo si viene attratti da una porta su cui si erge il cartello Azadi (libertà). 

Entrando si scopre un giardino dove il 4 aprile di ogni anno viene piantato un albero per celebrare il compleanno di Öcalan. Lì di fianco c’è l’area usata dai “cavallari” per far sostare i cavalli delle “carrozzelle” per turisti. E poi c’è l’edificio di due piani su cui sventola la bandiera del Pkk, dove si organizzano corsi di lingua curda, proiezioni di film e presentazioni di libri e il largo spiazzo dove ogni 20 marzo si festeggia il Newroz con il tradizionale fuoco, che negli ultimi due anni non si è svolto a causa della pandemia. Nonostante il blocco di alcune attività Ararat resta un modello di spazio comunitario autogestito, un luogo di dignità.

Ci ha vissuto per molti anni Cahite Ozel, 48 anni, arrivata a Roma nel 2008 per aiutare il fratello Abdurrahman, un mamoste, un cantastorie cieco dalla nascita, oggi 60enne. Cahite è nata a Kenike, in Turchia, e quando il suo villaggio è stato bruciato nel 1995 si è trasferita a Nisebin. «Il governo turco ha ucciso tanta gente, tra cui due miei fratelli, allora mi sono rifugiata in Italia – racconta Cahite –. Ho ricominciato da capo con lavori occasionali che ho perso a causa del Covid. Se fossi stata sola, sarei andata via dall’Italia perché il governo italiano non ci ha dato niente, solo un documento, ma devo badare a mio fratello. Gli ho sempre fatto da mamma».

«Ararat è un esperimento unico, non esiste in altre parti del mondo. Qui si radunano curdi di tutto il Kurdistan. Ci incontriamo, ci guardiamo e ci riconosciamo. È emozionante ritrovarci. Sappiamo di avere la stessa cultura. È un’identità radicata. Nulla potrà cancellarla» spiega Sait Dursun, uno dei curdi rimasti in Italia. 

«Sono arrivato a Roma a 18 anni da Yarik, villaggio sul Monte Ararat – racconta Sait –. Quando vivevo lì, non sapevo che esistessero altri mondi. Avevo paura e vergogna di essere curdo. Sono cresciuto con un senso di inferiorità». 

Oggi Sait ha 38 anni, tre figli e lavora come interprete e giocattolaio. Dice di sentirsi «più italiano che turco, anche se sui documenti sono turco». «In Italia ho aperto gli occhi. Ho trovato la libertà che mi ha permesso di capire me stesso – spiega –. Se sei libero non hai paura di dire chi sei. Sotto la paura si dicono solo bugie».

Molti come lui amano l’Italia, ma sono stati costretti a partire perché nel resto d’Europa, soprattutto in Germania, trovano condizioni di vita migliori. «In base a una normativa del 2014 di adeguamento del sistema italiano a quello europeo – spiega Sait –, i titolari di protezione internazionale, dopo 5 anni e dimostrando una serie di requisiti economici, possono convertire il proprio permesso di soggiorno in un permesso di lungo soggiornanti e trasferirsi in Europa per lavorare». 

L’esperienza di Badolato

Hanno preso al volo l’occasione anche molti dei curdi di Badolato, il piccolo centro calabro che il 26 dicembre 1997 accoglie 840 persone approdate sulla costa ionica catanzarese con la nave Ararat. Molto prima di Riace, Badolato diviene un modello di accoglienza. «Era la prima volta per tutti» racconta Daniela Trapasso, insegnante ed ex assessore alle politiche sociali e istruzione del Comune di Badolato, all’epoca semplice osservatrice che provò così tanta empatia per i rifugiati da «fingersi volontaria della Croce Rossa per aiutarli». 

«C’era stato un altro sbarco anche il 24 agosto 1997 – prosegue Trapasso – Arrivarono 480 persone, tra curdi turchi e iracheni, bengalesi e srilankesi, ma la Convenzione di Dublino entrò in vigore a settembre, quindi questi proseguirono tutti per l’Europa solo con il foglio di via. Nessuno ebbe paura di loro. La sera, nel campo allestito in una scuola, si suonava le chitarre e si cantava insieme. Lo stesso successe con i curdi della nave Ararat». 

Il sindaco di allora, Gerardo Mannello, dal 2016 ritornato in carica, pensò di offrire loro le case sfitte del borgo calabrese subito battezzato “Il Kurdistan italiano”. «L’arrivo dei curdi coincise con un periodo di spopolamento di Badolato – prosegue l’ex assessore –. Ottenemmo dei finanziamenti per sistemare gli alloggi e demmo ai profughi un punto da cui ricominciare. I curdi qui sono nati una seconda volta. Ancora mi commuovo se penso a quei giorni. La maggior parte poi è andata in Nord Europa, ma ancora riceviamo messaggi di nostalgia: “Non abbiamo mai più ritrovato l’umanità di Badolato. Il nostro cuore è ancora lì”».  

Ph. Levi Meir Clancy/Unsplash

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Francesca Bellino

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