di Raul Caruso. Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.
Oltre a quelli strategici, esistono alcuni fattori strutturali dell’economia russa che contribuiscono a spiegare l’aggressività del regime di Putin e l’attuale crisi con l’Ucraina. In un’economia così dipendente dagli idrocarburi e con un settore manifatturiero in declino, l’unico comparto in salute sembrava essere, infatti, quello della produzione di armamenti.
Un numero significativo di osservatori e analisti ha evidenziato i fattori strategici che contribuiscono a spiegare la crisi tra Russia e Ucraina. In particolare, sovente viene menzionata l’espansione della Nato nella regione e quindi le problematiche legate alle aree di influenza di Russia e Stati Uniti non stabilizzatesi fin dalla fine della Guerra fredda. Altri evidenziano il ruolo ambiguo dell’amministrazione Trump nei rapporti con il Cremlino e i movimenti populisti filo russi in Europa occidentale.
Non vi è però una pari attenzione a quelle che ad alcune caratteristiche strutturali dell’economia russa e che invece sono necessarie per spiegare l’aggressività del regime di Putin negli ultimi anni. La presenza russa in diversi conflitti armati, infatti, è stata una costante in questi anni. L’era di Putin, peraltro, è iniziata con la guerra in Cecenia, e successivamente i russi sono intervenuti in maniera decisiva negli scenari dell’Ossezia del Sud, dell’Abcasia e anche nella situazione ben più complessa della guerra civile in Siria.
In linea generale, nel momento in cui si analizzano i conflitti armati, una delle caratteristiche fondamentali da tenere in considerazione è la struttura settoriale dell’economia che influenza, seppur in maniera non deterministica, le scelte dei governi in merito all’opportunità di muovere guerra o comunque lasciarsi coinvolgere in dispute militari. In particolare, ogni sistema economico può essere analizzato sulla base del peso dei diversi settori produttivi e degli incentivi che determinano in merito a scelte di politica e quindi anche in merito ai conflitti armati.
Varie ricerche mostrano che laddove vi sia un peso elevato di settori che creano rendite e che sono peraltro poco produttivi e innovativi – come ad esempio i settori estrattivi – gli incentivi al conflitto aumentano poiché questo diviene uno strumento di protezione di tali rendite anche a livello globale. Ed è per questo che Paesi con forte presenza di manifattura anche innovativa tendono a essere meno inclini al conflitto.
In parole più semplici, i Paesi che mostrano sistemi economici con un sostanziale settore manifatturiero integrato a livello globale sono meno inclini all’uso della forza nelle relazioni internazionali. Al contrario l’inclinazione al conflitto è anche conseguenza che si manifesta nel momento in cui le economie tendono a essere dipendenti da settori estrattivi.
Attualmente, l’economia russa è ormai dipendente dall’esportazione di gas e petrolio. Nel 2020 più del 50% delle esportazioni russe era costituito da idrocarburi e minerali mentre i beni manufatti contribuivano alle esportazioni solo per il 21%. Tra questi, peraltro, solo il 9% nel 2020 rientrava nella categoria high-tech e le esportazioni di Information and Communication Technologies (Ict) sono pari solo allo 0,5% delle esportazioni totali. In linea generale solo il 13% del Pil era riconducibile al settore manifatturiero.
Invero, l’eccessiva dipendenza dall’esportazione di idrocarburi è infatti una fragilità instabile che si trasforma in aggressività. Tale dipendenza non consente alla società russa di intraprendere un percorso di sviluppo economico equilibrato e soprattutto duraturo. E infatti i livelli di povertà stanno aumentando costantemente negli ultimi anni.
In un’economia così vulnerabile in quanto dipendente dagli idrocarburi e con un settore manifatturiero in declino, l’unico comparto in salute sembrava essere quello della produzione di armamenti tanto che la Russia pesa per circa il 30% delle esportazioni a livello globale di armi convenzionali.
Il declino economico viene peraltro peggiorato dall’impegno militare e quindi la Russia rischia di trovarsi in una spirale di impoverimento e conflittualità crescenti. A dispetto dei proclami muscolari, la scommessa militare di Vladimir Putin è già comunque perduta e i cittadini russi ne pagheranno il prezzo dovendo subire ulteriori passi indietro in termini economici.
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Raul Caruso
Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana