di Velania A. Mesay. Reporter e studiosa del Corno d'Africa
A Suceava, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Ucraina, c’è un hotel che ospita i rifugiati che transitano in Romania. Molti di loro, invece di sentirsi sollevati, sono sommersi dai sensi di colpa.
Il Mandachi Hotel sorge al lato di una carreggiata in mezzo a una landa desolata a qualche chilometro dal centro città. È uno di quegli hotel di lusso che offre ai suoi ospiti servizi quali spa, centro benessere, piscina e casinò. Il proprietario di quest’hotel all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina e l’inizio dell’esodo, ancora in corso, di migliaia e migliaia di profughi, ha deciso di trasformare la sala ristorante del suo albergo in un rifugio temporaneo per chi, dopo giorni in viaggio, cerca un luogo sicuro a costi zero per riposare prima di rimettersi in cammino. Sono più di 130.000 ad oggi le persone che hanno attraversato la frontiera di Siret, a pochi chilometri da Suceava. Migliaia di loro hanno riposato in questa stanza prima utilizzata come refettorio, pista da ballo e centro congressi. I tavoli, le sedie e le decorazioni che adornavano l’enorme sala ristorante, che si apre dopo aver salito alcuni gradini nel retro dell’hotel, sono stati sostituiti da materassi stesi sul suolo a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro. Lo stanzone è sempre affollato: tanti i bambini che giocano, tante le donne e pochi invece gli uomini. Sulla vetrata d’ingresso sono appesi i disegni e le scritte dei bambini rumeni che danno il benvenuto ai loro nuovi amici ucraini. Su due tavoli sono riposti dei viveri, pannolini e altri generi di prima necessità di cui i profughi possono usufruire gratuitamente.
ASSISTENZA AI PROFUGHI
Ad accoglierci è Ana, una delle volontarie che ha deciso di prestare servizio di prima assistenza ai tanti che varcano le soglie di quest’hotel. Quando ha appreso che la guerra fosse iniziata, ha smesso di frequentare le lezioni nell’università di Suceava, presso la quale è iscritta, ed è venuta qui. Ana ha poco più di vent’anni, è ucraina, di Cernivci. «Sento il dovere di prestare il mio aiuto ai miei connazionali nel Paese che ha accolto anche me come studentessa». Le chiediamo dei suoi familiari. «Cernivci ancora non è stata toccata dalla guerra, ma non possiamo sapere cosa accadrà nei prossimi giorni. Ho provato a convincere i miei genitori a venire qui ma loro si sono rifiutati. Dicono di non volere abbandonare la loro casa, la loro patria».
In un angolo buio dell’ex ristorante incontriamo un gruppo di anziani. A Kiev erano vicini di casa. «Ci abbiamo messo tre giorni per arrivare fin qui e grazie a Dio siamo sani e salvi». Mi dice Sergej seduto sulla moquette e prosegue: «un’amica di mia moglie, che viveva nel nostro stesso quartiere, si era messa alla guida per fuggire dai bombardamenti russi ma le schegge l’hanno raggiunta. Ha perso entrambe le gambe ed è morta dissanguata sul sedile dell’auto. Giace ancora in quella macchina e nessuno ad oggi ha potuto seppellire il suo corpo». E proprio non poter avere celebrato un degno funerale è il rammarico più grande di questo gruppo di pensionati che confrontandosi tra di loro ancora si chiedono se hanno fatto bene a partire. «Forse dovevamo aspettare almeno per la sepoltura della nostra amica» si chiede crucciata quella più anziana. A questo, si aggiunge il dolore e la preoccupazione per chi è ancora lì. Alina, moglie di Sergej, sfiora il pianto quando ci dice che i suoi due nipoti non sono potuti venire con lei. Troppo giovani per essere arruolati e troppo grandi per abbandonare il Paese. «E allora cosa dovrebbero fare lì!? Aspettare che delle bombe piovano sulle loro teste mentre la loro vita attende indicazioni dall’esercito?».
Guardano fuori la finestra sconsolati. Sono convinti di potere tornare presto nel loro Paese. «Vogliamo morire nella nostra terra» ci dicono. «E vogliamo seppellire la nostra amica. Non si meritava questa sorte». I quattro sono diretti a Milano, li ospiterà una parente che lavora da quindici anni nella città come badante. A interrompere la nostra conversazione è Anastasia, che si avvicina bisognosa di condividere una confidenza. Ci invita a sederci sul suo materasso, facendo attenzione al suo gatto che si nasconde tra le coperte. Guarda nel vuoto e fa come per accendersi una sigaretta che però, lungo una conversazione di un’ora e mezza, non accenderà mai. «Lo sapete come ci chiamano a noi che siamo scappati?», inveisce Anastasia. «Ratti! Siamo dei ratti per loro…» E scoppia in un pianto che sembra aver trattenuto da giorni. Anastasia è di Sumy, una città del Nord-Est dell’Ucraina a cinquanta chilometri dal confine con la Russia.
CORRIDOI UMANITARI
Una settimana fa la difficile decisione: lei e la madre capiscono che è tempo di andarsene, che la città sta per essere circondata e che oramai non ha più senso attendere che le cose migliorino. Si iscrivono nelle liste per i corridoi umanitari. Attendono qualche giorno finché arriva la chiamata: «domani alle 8 vi aspettano alla stazione dei bus». Infilano Sonia, la loro gattina, in una cesta e salgono sul pulmino. Ad andare con loro c’è anche Ludmilla, una diciannovenne amica di famiglia. «Sua madre l’ha affidata a noi. Lei e suo padre non possono andarsene perché devono prendersi cura dei loro genitori che sono troppo anziani per intraprendere un viaggio del genere». E sono tante le persone anziane che rinunciano alla fuga e rimangono intrappolate nelle città assediate. «È per questo che ci chiamano ratti alcuni di coloro che rimangono in Ucraina. Ci dicono: ‘e quando tutti voi ve ne sarete andati chi si prenderà cura del nostro Paese? Chi accudirà i vostri genitori? Siete dei traditori».
Mentre Anastasia ci riporta questi commenti, inizia a singhiozzare. Lei, come altri che sono riusciti a scappare, vive nel senso di colpa. Si giustifica per la sua scelta e cerca nella confessione un perdono, quasi potessero essere gli altri a poterla assolvere da una colpa che non è una colpa. «Sumy non è Mariupol» mi ripete per sottolineare di essere scappata non da una città martoriata, ma da una in cui i combattimenti sono stati meno feroci rispetto a quelli dove vive la sua amica Svetlana. «La mia migliore amica è di Mariupol e da due settimane non vede la luce del sole perché per sfuggire agli intensi bombardamenti si è rifugiata sotto una stazione della metropolitana». E continua: «io mica ero in quelle condizioni nella mia città. Sì, si sentivano i colpi d’artiglieria vicino casa, le sirene che avvertivano i raid, ma mettendomi nel corridoio del mio condominio sono riuscita a scamparla. In fondo, forse, non ero così tanto in pericolo». E continua: «eppure, credo che alla fine abbiamo deciso di scappare perché i nostri nervi stavano cedendo. Non potevamo più sopportare quella quotidianità fatta di attesa, stese sul pavimento, attaccate al telefono a leggere ogni notizia, senza sapere quando questo incubo sarebbe cessato».
Cerca di giustificarsi Anastasia per la sua scelta, come se avere la guerra in casa non fosse una motivazione già abbastanza ragionevole per decidere di andarsene. A Sumy in realtà solo due settimane fa sono rimaste vittime 18 civili a causa degli intensi bombardamenti. La città è ora quasi totalmente circondata dall’armata russa e i viveri scarseggiano. Anche le agenzie di aiuti umanitari non hanno possibilità di entrare. Nonostante questo, Anastasia continua a scusarsi per la sua decisione. «Spero che un giorno mi perdoneranno. Spero che un giorno riuscirò a perdonarmi». Ora lei e la madre sono dirette in Francia. Una coppia, due clienti abituali del suo online shop, pochi giorni dopo la diffusione della notizia sullo scoppio del conflitto, non ha esitato nello scriverle una mail, invitandole a raggiungerli a Nantes dove risiedono.
Velania A. Mesay
Reporter e studiosa del Corno d'Africa