di Nadia Angelucci. Giornalista e scrittrice.
In Ecuador, nella cosiddetta Zona intangibile, tra il fiume Napo e il Cururay, convivono lo sfruttamento delle risorse, la progressiva antropizzazione, la natura selvaggia e ciò che resta di popolazioni e culture ancestrali.
Dopo aver percorso circa un’ora di mezza in macchina dalla città di Coca, capoluogo della provincia di Orellana, nella zona dell’Amazzonia ecuadoriana, si arriva a Pompeya.
È da lì, sulla riva sinistra del fiume Napo, che in canoa comincia il viaggio verso il Blocco petrolifero 17 gestito dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol e che si estende dalla riva destra del fiume Napo per circa 130 km verso Sud. Il territorio concesso a Repsol dallo Stato ecuadoriano per attività di esplorazione e sfruttamento petrolifero si protende e penetra nella giungla fino a lambire una parte della cosiddetta Zona intangibile, intoccabile, un’area che dovrebbe essere preservata da qualsiasi tipo di intervento umano. Si tratta di un territorio di 758.000 ettari, che rappresenta il 70% del Parco Nazionale Yasuní (982.000 ettari) che si estende nei territori compresi tra il fiume Napo e il fiume Curaray, una zona di una biodiversità straordinaria nel cuore della foresta amazzonica.
Il paradosso di questo luogo, e della sua intangibilità, è proprio quello di essere circondato da concessioni petrolifere dove convivono, in un sincretismo in cui le multinazionali la fanno da padroni, lo sfruttamento delle risorse, la progressiva antropizzazione, la natura selvaggia e ciò che resta di popolazioni e culture ancestrali.
La canoa attraversa il fiume e un servizio di trasporto, organizzato da Repsol, carica persone e masserizie prima di spingersi sulla strada sterrata. Oltre a questi autobus nella concessione petrolifera possono circolare solo automobili della compagnia petrolifera sulle quali è installato un localizzatore satellitare che controlla i limiti di velocità e impone i 45 chilometri orari. Ufficialmente l’apparecchiatura dovrebbe evitare che gli autoveicoli mettano in pericolo le persone e gli animali che circolano nel territorio. A pensar male si potrebbe speculare su un controllo degli spostamenti nella concessione petrolifera.
La strada bianca e polverosa divide in due la foresta, si snoda sinuosa tra due ali di bosco fitto e sopra solo panorama di un cielo azzurro. Ogni tanto il verde si apre a lasciar intravedere una chagra, un orto, e una casa di legno costruita come una palafitta. I crocevia appaiono di tanto in tanto a indicare altri cammini che si spingono nella foresta; sono un segno bianco nel verde intenso e compatto della giungla.
Lì, sullo sfondo, ci sono le comunità di Dicaro e Yarentaro dove vivono famiglie che appartengono al popolo ancestrale waorani. Un popolo nomade e cacciatore che negli Anni ‘50 del secolo scorso ha subìto l’impatto dell’avanzata delle compagnie petrolifere e si è spezzato in due: alcuni si sono adattati a una vita stanziale e si sono stabiliti negli spazi concessi dalle multinazionali e altri rifiutano il contatto con la civiltà globalizzata e si sono ritirati nel profondo della selva. In queste comunità, l’assenza dello Stato è quasi totale e le necessità di base sono in gran parte coperte dalla compagnia petrolifera. La petrolera dà, la petrolera toglie. Dà lavoro, costruisce le scuole, le infrastrutture stradali e sanitarie. Ma negli anni la sua presenza ha smantellato un sistema di vita e travolto le culture ancestrali. Il popolo che fu nomade e guerriero vive in una condizione di minorità in bilico tra le proprie tradizioni sbiadite e un salto verso la cultura occidentale che mai si realizza completamente.
Nella concessione petrolifera, che funziona come una riserva, la vita scorre con apparente tranquillità. Ma la calma e la serenità dei bambini che giocano nei campi, dei bagni nel fiume, delle partite serali a football, della caccia e della pesca sono un malinteso. Lo sconvolgimento dei ritmi e degli stili di vita ancestrali, che risale a pochi decenni fa, ha prodotto vari livelli di conflitto.
Politico ed economico: con la compagnia petrolifera che inquina e devasta il territorio ma dalla quale si dipende per tutte le necessità; generazionale: tra chi ricorda la vita nella selva, chi ancora conserva abilità straordinarie nella caccia, chi sa fabbricare utensili e armi usando legna e piante velenose e chi è nato già nella stanzialità, ha frequentato la scuola e aspira a possedere oggetti di consumo; intraetnico; tra chi è rimasto nella foresta ma vede le proprie risorse diminuire per l’avanzata della “civiltà” e chi ha scelto quella “civiltà” ma vive solo delle sue briciole.
Suor Marlene, una missionaria laurita che ha scelto di vivere in foresta insieme agli waorani, mi racconta tutto questo in una notte stellata e popolata di versi di animali sconosciuti mentre sediamo sulle scale della sua casetta di legno nella comunità di Dicaro. Ha scelto di essere testimone di un mondo che sta finendo, di essere in quel luogo per proteggere come può quella cultura che ogni giorno perde qualcosa.
Con gli occhi che brillano mi dice che il suo cuore batte per quella parte degli waorani che hanno scelto di rimanere nel ventre della foresta: i popoli liberi.
Ph. Aerial view of exploration in Ecuador. We are present in Ecuador through exploration and production operations in Blocks 16 and Tivacuno © Repsol via flickr
Nadia Angelucci
Giornalista e scrittrice